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Le donne “fraintese” anche dagli artisti

di | 2021-11-21T10:41:44+01:00 21-11-2021 6:10|Arte, Sezione 3|0 Commenti

ROMA – Anche nell’arte, regno del pensiero libero, la donna ha sempre avuto difficoltà ad affermarsi nella sua identità e nei suoi valori di impegno civico o etico. La visione dell’eterno femminino come oggetto del desiderio o come madre è stata lo zoccolo duro di una cultura millenaria e dura da demolire che ha preferito vedere l’uomo come protagonista della storia relegando a ruoli erotici o casalinghi “l’altra metà del cielo”. Pittori, poeti, scultori sono stati sin dall’antichità attratti e ispirati dalla figura femminile e sedotti da un clichè che l’ha voluta simbolo di fecondità o di virtù domestiche: la dea madre, la terra, le veneri, la natività, la fedeltà al matrimonio. Solo dall’800 gli artisti hanno iniziato a concepire l’idea di una donna capace di influenzare la società e di cambiare la storia con il proprio contributo e la propria autodeterminazione.

Lucrezia, la matrona romana

Prima, anche quando essa era stata la protagonista di un dipinto o di una scultura, il suo ruolo quasi sempre doveva essere funzionale ad una società maschile. Anche da eroina, la donna era confinata ai margini della società, con mansioni e funzioni esclusive del sesso “debole” o “gentile” che dir si voglia. Esempio ne sia Lucrezia, la nobildonna romana che si suicidò, alla fine del periodo monarchico, per la vergogna di essere stata violentata e per proteggere il buon nome del marito. Per questo atto di coraggio Lucrezia si è guadagnata un posto nella storia e nell’arte, anch’esse rimaste spesso vittime di una convinzione troppo radicata che la donna detenga la “virtù” (solo) nei suoi attributi sessuali. Così la nobildonna suicida, in una operazione manipolatoria in cui i Romani erano già molto abili, è divenuta un “exemplum” per intere generazioni di matrone essendosi immolata dopo uno stupro. Il ricordo di lei è transitato nei secoli nell’idea che una donna violentata si debba rassegnare ed abbia come unica via di fuga il suicidio, se non vuole continuare a vivere nella vergogna.

Uno scatto nella mentalità lo compie Jacques David nel comporre “Le Sabine”, in piena Rivoluzione francese. In questa tela famosissima, conservata al Museo del Louvre, l’artista dà un ruolo centrale (anche fisicamente), a Ersilia, moglie di Romolo, riconoscendole il merito di aver saputo fermare una guerra devastatrice tra due popoli confinanti. Senza quella pace, infatti, Romani e Sabini si sarebbero uccisi a vicenda portando di fatto all’eliminazione della stirpe che avrebbe conquistato il mondo. La donna di David, quindi, oltre che madre e moglie come vuole la tradizione, è una garante della storia e della grandezza di Roma nel tempo. La moglie del primo re di Roma ha un ruolo sociale e politico ma ci sono voluti l’età dei lumi e il genio di David per concepire un’immagine tanto rivoluzionaria, anche se nella versione dell’artista francese del famoso ratto- stupro non si fa cenno. Ma tanto, alla fine del ‘700, non si può neanche pretendere. Eppure di stupro si trattò ma i Romani per quel gesto di inciviltà non sono mai stati condannati dalla storia, anzi.

Le Sabine”, il celebre quadro di David

Anche l’arte, quindi, nonostante sia il campo del libero pensiero, ha le sue responsabilità nei confronti della donna che ha immaginato raramente emancipata, autonoma da mariti, fidanzati, amanti, oppressori. Dopo David, qualche altro artista è riuscito a svincolarsi da questa mentalità. Gustav Klimt, all’inizio del secolo scorso, dà una spallata alla tradizione entrando nel vivo del dibattito sul ruolo dell’uomo e della donna e il rapporto tra i sessi che si stava svolgendo a Vienna. Lo fa con il suo “Giuditta e Oloferne”, un dipinto a olio su tela conservato a Vienna ma ora in una mostra a Roma (Palazzo Braschi), fino al 27 marzo. Il mito biblico di Giuditta che taglia la testa a Oloferne, capo degli Assiri oppressori del suo popolo, è stato sempre molto amato dagli artisti di tutti i tempi ma Gustav Klimt ne dà un’interpretazione nuova e molto attuale. La sua Giuditta è una donna moderna, altera, sensuale e determinata, consapevole del proprio potere seduttivo che gestisce e sfoggia sfrontatamente (perché non dovrebbe?), ma soprattutto conosce quale sarà il risvolto politico del suo gesto. Ucciso Oloferne, infatti, grazie a lei il suo popolo conquista la libertà.

E’ questa la donna in cui crede Klimt, non una donna che la vergogna e la paura hanno tenuto per secoli lontana da ruoli maschili ma che è capace di gestirli a modo suo, non rinunciando alla propria sensualità. Giuditta non è più, come nella tradizione, il simbolo della vittoria sul nemico ma del nuovo ruolo politico che la donna avrebbe avuto nel futuro. Il futuro cui pensava Klimt è oggi ma il riscatto dalla violenza e dalla prevaricazione maschile non si è realizzato e non solo nell’arte ma anche nella realtà.

Gloria Zarletti

Nell’immagine di copertina, la tela di Gustav Klimt dedicata a Giuditta

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