VITERBO – Viviamo in un Paese dove la lamentela non conosce stagioni. Funziona con il caldo, con il freddo, in ufficio e persino in vacanza. È il sottofondo costante delle conversazioni al bar, il tema preferito dei pranzi domenicali e la colonna sonora dei social network. Non c’è dubbio: lamentarsi è il vero sport nazionale, e non serve alcun certificato medico per praticarlo. Ma se tutti si dichiarano stanchi, insoddisfatti, arrabbiati con la politica, con il capo, con il vicino di casa, la domanda sorge spontanea: perché, al di là delle parole, così pochi si muovono davvero per cambiare le cose? Forse, più che una reazione di disagio, la lamentela è diventata una forma di comfort, un divano mentale sul quale sdraiarsi per non alzarsi mai.
La lamentela come anestetico La sociologia ci insegna che la lamentela collettiva può avere un effetto rassicurante: ci fa sentire parte di un gruppo. “Siamo tutti nella stessa barca”, ci diciamo. Il problema è che, più che una barca, sembra una zattera che non si muove di un millimetro. Ci si scambia pacche sulle spalle, si condivide la stessa frustrazione, ma alla fine si resta immobili. L’ironia della sorte è che lamentarsi diventa persino gratificante: permette di avere ragione senza dover dimostrare nulla. Non serve preparare un progetto, avanzare una proposta o rischiare un fallimento. Basta un sospiro ben assestato o un post su Facebook condito da tre punti esclamativi. Voilà: la sensazione di aver “fatto qualcosa” è servita.
La paura del cambiamento C’è poi un altro elemento, meno comodo da ammettere: cambiare davvero implica fatica. Significa studiare, confrontarsi, esporsi al giudizio degli altri. E se le cose non funzionano? E se il risultato fosse peggiore della situazione attuale? Meglio restare nella lamentela, che ha un pregio non da poco: è a rischio zero. Nessuno ti giudica per esserti lamentato, perché lo fanno tutti. È la zona franca del nostro tempo. Eppure, se ci pensiamo bene, la vera ironia è questa: ci si lamenta per sentirsi vivi, ma ci si condanna a una vita spenta. Una ruota da criceto, ma con vista panoramica sul nulla.
La differenza tra sfogo e immobilismo Attenzione: lamentarsi in sé non è un male. Anzi, può essere un atto necessario. È lo sfogo che anticipa un cambiamento, la valvola che segnala una pressione interna. Ma se alla valvola non segue un motore, resta solo aria fritta. Il rischio è che ci abituiamo a questo schema: primo atto, mi lamento; secondo atto, trovo consenso; terzo atto, torno alla mia vita di sempre. Sipario. In pratica, il lamento diventa un piccolo spettacolo quotidiano, dove l’applauso è sostituito dai “hai ragione” degli altri.
La (scomoda) alternativa E allora? La vera alternativa alla lamentela sterile è l’azione. Non serve rivoluzionare il mondo in una notte, ma partire dal piccolo: chiedere un chiarimento al capo invece di borbottare in pausa pranzo; partecipare a un’assemblea invece di dire che “tanto non cambia nulla”; proporre un’idea invece di attendere che cada dall’alto. Certo, agire comporta rischi e responsabilità. Non è detto che vada sempre bene, ma almeno offre una possibilità. La lamentela, invece, offre soltanto la garanzia del nulla. Ed è curioso — e qui l’ironia si fa amara — che tante persone, pur dichiarandosi insofferenti, alla fine scelgano la certezza del nulla alla fatica di un tentativo. Perché ci stiamo così bene nella lamentela? La risposta è forse meno complicata di quanto sembri. Ci stiamo bene perché la lamentela non richiede competenze, non ha costi, non obbliga a misurarsi con il fallimento. È il “cibo spazzatura” delle relazioni sociali: soddisfa subito, non nutre mai. Chi sceglie invece di agire, sa che il prezzo da pagare è alto: incomprensioni, critiche, errori. Ma è anche l’unico modo per trasformare il malessere in cambiamento concreto.
Quando la sabbia diventa deserto Il punto non è smettere di lamentarsi del tutto: sarebbe innaturale. Il punto è capire che, se il lamento diventa abitudine, si trasforma in una gabbia dorata. Una gabbia in cui ridiamo delle stesse battute, ci scambiamo gli stessi sospiri e rimandiamo sempre al giorno dopo la possibilità di cambiare davvero. E allora sì, viene da chiedersi: non sarà che, in fondo, ci piace più il lamento del cambiamento? Magari, senza ammetterlo, ci siamo accorti che lamentarsi è comodo, che l’ironia ci salva la faccia e che il resto del mondo è un ottimo bersaglio. Ma la prossima volta che iniziamo a borbottare, varrebbe la pena provare a spostare almeno un granello di sabbia. Perché a forza di lamentarsi, il rischio è che la sabbia diventi deserto.
Alessia Latini

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