/, Sezione 7/La famiglia Manzoni vista dalla Ginzburg

La famiglia Manzoni vista dalla Ginzburg

di | 2022-03-06T07:23:22+01:00 6-3-2022 6:30|Cultura, Sezione 7|0 Commenti

PALERMO – Cosa resta al lettore dopo aver letto La famiglia Manzoni (Einaudi, Torino, 2016), in cui Natalia Ginzburg, attraverso documenti storici e le tante lettere tra i componenti della famiglia, ne racconta la storia? Un’indimenticabile e preziosa retrospettiva sulla vita di una famiglia della media borghesia lombarda nel 1800, l’eco dolente di giovani vite uccise da malattie oggi curabili, uno sguardo diverso su Alessandro Manzoni, padre onnipresente e ingombrante, che nel testo cede comunque la centralità della scena alla coralità della sua famiglia. Ecco cosa scrive a tal proposito l’autrice nel 1983, data di uscita del testo, nel risvolto di copertina: “Il protagonista di questa lunga storia famigliare non volevo fosse Alessandro Manzoni. Una storia famigliare non ha un protagonista; ognuno dei suoi membri è di volta in volta illuminato o risospinto nell’ombra.  Non volevo che egli avesse più spazio degli altri; volevo che fosse visto di profilo o di scorcio, e mescolato in mezzo agli altri, confuso nel polverio della vita giornaliera”.

Il libro si apre con una galleria di dipinti, foto e ritratti: della madre di Alessandro Manzoni, Giulia Beccaria, che si separò dal marito Pietro e divenne compagna di Carlo Imbonati, di Alessandro ragazzo, della moglie Enrichetta Blondel, della loro nidiata di figli, teneri bambini prima e adulti pensosi dopo, di Teresa Borri Stampa – seconda moglie di Manzoni – e di suo figlio Stefano, degli amici francesi Claude Fauriel e Sophie de Condorcet, dell’abate Degola e del canonico Tosi, di Massimo D’Azeglio e di tanti altri ancora: una carrellata di volti capaci di squarciare il tempo e lo spazio con i loro sguardi pensosi o ridenti, malinconici o severi, che consentono un’immediata “full immersion” visiva nell’universo manzoniano.

Alessandro Manzoni nel 1805

Il testo abbraccia quasi 150 anni di storia familiare: dal 1762, anno di nascita di Giulia Beccaria, al 1907, anno in cui muore Stefano Stampa, figliastro di Manzoni.

Natalia Ginzburg racchiude la saga familiare in otto capitoli che prendono il nome da un componente della famiglia: Giulia Beccaria, Enrichetta Blondel, Giulietta, Teresa Borri, Vittoria, Matilde, Stefano; solo il terzo è intitolato a Fauriel, uno degli amici più cari.

Giulia Beccaria aveva i capelli rossi e gli occhi verdi. Nacque a Milano nel 1762. Suo padre era Cesare Beccaria e sua madre Teresa de Blasco”: questo l’incipit del primo capitolo, che presenta Giulia, madre forte e determinata. La Ginzburg tratteggia poi così l’incontro a Parigi tra lei e il figlio diciannovenne, dopo la morte di Imbonati: “A Parigi, in rue Saint-Honorè, madre e figlio si trovano uno davanti all’altra e si guardano come due che non si sono mai visti prima. (…) Lei soffre per una recente perdita e porta i segni del dolore su viso. Lui si sente a un tratto chiamato a esserle di sostegno. Non sono madre e figlio perché tra loro i vincoli materni e filiali sono stati lacerati nel corso degli anni, vivendo essi lontani uno dall’altra ed essendo ognuno dei due desideroso di dimenticare l’altro. In lui l’immagine materna che l’ha lasciato solo e si è dileguata è stata sotterrata nella memoria emanando angoscia e ispirandogli un confuso rancore. In lei l’immagine infantile a cui non ha dato tenerezze materne e da cui è fuggita è stata sotterrata emanando angoscia e rimorso. Tutto questo retroterra di sentimenti sepolti rinasce fra loro di colpo e subito di nuovo sprofonda nell’oscurità. Sprofonda però gettando lampi e clamori ed essi ne sono assordati e abbagliati. Per l’uno e per l’altra comincia una nuova esistenza”.

Giulietta Manzoni

Nel riannodare i fili della complessa matassa di relazioni attraverso le evidenze epistolari, Natalia intuisce delle ombre nella fede religiosa dei Manzoni: se Alessandro sembra accettare gli eventi, anche quelli  dolorosi e luttuosi, sotto l’ombrello della visione salvifica del cattolicesimo, se la dolce Enrichetta – sposata a 16 anni e morta a 42 il giorno di Natale del 1833, sfinita da nove parti e alcuni aborti – vive e muore rassegnata… nelle brevi vite delle figlie Giulietta, Cristina, Sofia e Matilde si colgono echi di sofferenza, di solitudine e tristezza a stento celate. Tranne Vittoria, tutte le figlie di Manzoni muoiono assai giovani, forse di tubercolosi.

Teresa Stampa

Nella saga famigliare, con tocco sommesso e sapiente la Ginsburg narra conversioni religiose e paturnie nervose; descrive con perizia case, luoghi e suppellettili e racconta viaggi in cui le carrozze a volte possono rovesciarsi; riporta un susseguirsi di testamenti, che comprendono anche il lascito di oggetti minuti; ritrae la fragilità di Enrico e Filippo, i due figli maschi minori rampognati dal padre per debiti o cattiva condotta; ci introduce nelle stanze dove spesso la fanno da padrone i salassi e i catarri pleuritici; ci mette al corrente di una gravidanza scambiata per un tumore; trascrive le epigrafi tombali che Manzoni fu costretto a dettare per i lutti che funestarono la famiglia.

Proprio riguardo alla morte, chi legge non può non pensare a come sia cambiata in meglio oggi la vita di tutti – delle donne in particolare – grazie ai progressi di Scienza e Medicina, che hanno permesso un notevole allungamento e una migliore qualità della vita, nonostante la pandemia. Già solo per questo aspetto, la lettura del libro è vivamente consigliata come viatico propiziatorio a una visione più laica dell’esistenza, lontana da ogni oscurantismo.

Ecco poi alcune considerazioni di Elisabetta Rasy, tratte dalle pagine culturali de “Il Sole 24 ore”, nel gennaio 2017: “In altri termini Ginzburg sfidava Manzoni sul suo stesso terreno. In vari modi: costruendo un romanzo storico basato solo sui documenti, cioè sulla verità dei fatti, ma con un andamento narrativo, cosa che Alessandro non riteneva possibile; con un racconto familiare e di ambiente dove l’immaginazione non poteva evadere dai dati repertoriati nell’attualità del tempo; infine, azzardo, sul terreno della provvidenza, per dimostrarne la assoluta latitanza nella vita degli esseri umani, o almeno in quella della parentela manzoniana. (…) Ginzburg riuscì a dare a questo suo libro il tono di un’epopea tragica mettendo in risalto di ogni personaggio e di ogni situazione il lato in ombra, la crepa, il grido trattenuto dietro il sussurro delle buone maniere. Lei stessa le pratica, queste buone maniere ingannatrici, e racconta come se stesse parlando a un’amica: giustamente Nigro lo definisce romanzo-conversazione”.

Giulia Beccaria

E ancora: “Perché qualcosa avevano sicuramente in comune Natalia Ginzburg e Alessandro Manzoni, che lei sembra ammirare e detestare insieme: un forte sentimento dell’incarnazione. Natalia più di Alessandro. Nei capitoli, veri e propri incontri, che dedica ai personaggi della famiglia (…) la vita materiale celebra il suo trionfo.”

Ancora una volta, dunque, la Ginzburg ci cattura e ci appassiona, con questo libro che, come scrisse il critico Giovanni Raboni nel 1992 “a prima vista non è un romanzo, bensì la ricostruzione paziente, meticolosa, quasi ossessiva di una vicenda reale attraverso documenti d’archivio, lettere, testimonianze “. In realtà la Ginzburg, esperta nella narrazione dei “lessici famigliari”, secondo Raboni, scrive forse con “La famiglia Manzoni” il suo romanzo più bello.

Enrichetta Blondel

L’autrice – continua ancora il critico –  ha adibito alla realizzazione di questo progetto le sue doti migliori e più tipiche di narratrice: la scrittura pudica, sommessa scrupolosamente paratattica, come se le profondità e i grovigli delle subordinate potessero costituire una sorta di indebita intrusione nell’intimità dei personaggi, che la Ginzburg osserva e descrive dal di fuori con un distacco quasi scientifico; la capacità di lasciare che i fatti e il loro significato «vengano avanti» da soli; l’attenzione agli aspetti apparentemente più incolori e trascurabili, in realtà sottilmente rivelatori, di una situazione o di un rapporto”.

Infine, cosa ha spinto Natalia a cimentarsi con la ricostruzione di una famiglia celebre, in un secolo che non era il suo? Lo dice lei stessa in un’intervista del 1983: “Le storie familiari mi hanno sempre affascinato. E mi faceva curiosità e piacere abitare nell’altro secolo, e conoscere quell’Italia così piccola e così provinciale. All’ultimo, m’è sembrato che si spegnessero tutte le luci e lo scenario rimanesse deserto”.

E conclude il già citato risvolto di copertina con la potenza di quest’immagine suggestiva: “Come ogni storia famigliare sulla quale è passato un secolo, questa presenta lacune, vuoti, erosioni, anelli mancanti. Io credo che simili erosioni e devastazioni mi siano parse attraenti perché misteriose e dolorose, e perché inoltrarvisi era strano come inoltrarsi per una terra sconvolta da un nubifragio; dove accadeva a volte di incontrare oggetti e suppellettili, quando intatti e quando sciupati, ma caldi ancora della vita degli esseri umani che li toccarono”.

 

Maria D’Asaro

Nell’immagine di copertina, la scrittrice Natalia Ginsburg

 

 

 

 

Già docente e psicopedagogista, dal 2020 giornalista pubblicista. Cura il blog: Mari da solcare
https://maridasolcare.blogspot.com. Ha scritto il libro ‘Una sedia nell’aldilà’ (Diogene Multimedia, Bologna, 2023)

Lascia un commento

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi