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Io lavoro da casa mia: ecco il south working

di | 2020-07-31T13:31:38+02:00 2-8-2020 6:15|Attualità, Sezione 4|0 Commenti

MILANO – Dallo smart working al south working il passo è breve. Che dire di lavorare per un’azienda di Milano restando a Palermo? Venti professionisti italiani, tutti sui trent’anni, hanno lanciato un progetto pilota coinvolgendo i comuni delle due città, oltre che aziende e dipendenti, con l’idea, a dir poco geniale, di mitigare le disparità fra nord e sud. Elena Militello, ricercatrice dell’Università del Lussemburgo, è una di quei professionisti, forse la prima, che ha avuto l’intuizione di mettere in piedi questo progetto ardimentoso. Lei si occupa di procedura penale comparata, ha 27 anni ed è di Palermo. Nel 2010 si trasferì dalla sua città natale a Milano per studiare alla Bocconi. Poi il dottorato l’ha portata negli Stati Uniti e in Germania. Quando è iniziata l’emergenza coronavirus, lavorava all’Università del Lussemburgo come ricercatrice; a fine marzo, è rientrata a Palermo e ha iniziato l’esperienza del south working. Non solo. Ha anche deciso di voler rimanere nella sua città a tempo indeterminato.

Elena Militello

Da qui è nata l’idea del progetto vero e proprio. Ed è stato così che, proprio a causa della pandemia e della conseguente diffusione del lavoro in remoto le è venuta un’idea che a guardare bene potrebbe cambiare l’Italia se avesse successo. Il progetto che si chiama South Working vedrà come protagoniste, in prima battuta, le città di Milano e Palermo, racconta lei stessa. “Penso si possa cominciare ad immaginare un mondo diverso rispetto a quello di ieri grazie alla tecnologia e al lavoro agile. Un mondo nel quale alle persone sia consentito per periodi più o meno lunghi di trasferirsi al sud dove la qualità della vita è più alta e il costo molto più basso mantenendo il proprio posto nelle aziende attuali”. Questa affermazione ha scatenato qualche polemica sul web perché di fronte a quelle affermazioni  molti non si sono trovati d’accordo. Forse però vale la pena di provare, senza contare il fatto che durante il periodo di pandemia, che ancora non è terminato, questa si è rivelata una soluzione a tanti problemi. In molti, per cause di forza maggiore, hanno già sperimentato di risiedere al sud, lavorando in remoto.

Guardando il progetto in una visione più ampia si possono fare molteplici considerazioni. Attuando il progetto in larga scala la prospettiva sarebbe quella di mettere in discussione le logiche che hanno portato a considerare che fosse necessario dover gravitare attorno a pochi grandi agglomerati urbani, in Italia come all’estero, costringendo le aziende a reclutare personale in aree geografiche vicine alla propria sede. Ed ecco che il risultato è stato quello di avere città congestionate, dove il prezzo delle abitazioni è stellare e lo stipendio viene speso soltanto per arrivare a fine mese. Basta fare un raffronto tra gli affitti tra una grande città come Milano, Torino, Roma e Lecce, Pescara o la stessa Palermo per rendersi conto che questa soluzione porterebbe dei benefici economici indiscutibili. “Tengo a precisare – aggiunge Elena Militello – che il Sud è inteso come concetto relativo, siamo tutti il Sud di qualcos’altro. Lo scopo del progetto è infatti quello di studiare e agevolare il fenomeno dello smart working localizzato in una sede diversa da quella del datore di lavoro, qualunque essa sia”.

Assieme a Militello stanno mettendo a punto il progetto altri venti professionisti, tutti attorno ai 30 anni e tutti con esperienze all’estero. In parte aderiscono all’associazione Global Shapers, legata al World Economic Forum, che ha 425 centri in 148 Paesi. Si tratta ora non solo di trovare le modalità legali ed economiche affinché chi è del sud possa tornare a vivere per certi periodi nella propria terra, ma anche di offrire un’opportunità a chiunque, al di là del proprio luogo di nascita. Naturalmente va verificata in dettaglio la reale fattibilità. Si parte da Milano e da Palermo perché sono le due città italiane più cablate e nelle quali è quindi possibile muovere i primi passi essendoci le infrastrutture. Lo scopo è quello di arrivare ad un patto istituzionale con aziende e comuni, ad una serie di linee guida, a dei contratti quadro ed anche a degli spazi di coworking dedicati in entrambe le città.

L’idea va oltre lo smart working. Si potrebbe mitigare le disparità fra nord e sud. Si tratta di intendere il lavoro in una nuova prospettiva. La digitalizzazione significa progresso e su questo bisogna puntare per decongestionare il traffico nelle grandi città, per non alimentare il diffondersi di zone dormitorio nella cintura geografica delle metropoli, per non lasciare morire tutte quelle belle cittadine del sud da dove i giovani si trovano costretti ad emigrare per poter costruire il proprio futuro. Qualche controindicazione? Beh, in tanti potrebbero abbandonare definitivamente il capoluogo meneghino per tornare nelle zone di origine e lavorare da remoto. E se meno lavoratori e residenti da un lato provocano meno code in auto, dall’altro portano anche meno clientela per bar e ristoranti nelle pause pranzo e meno richieste per il mercato immobiliare.

Per ora la dimostrazione di un interesse concreto si fa sentire da più parti e il South Working va avanti. E’ stata fatta una lista di settori, di aziende e centri di ricerca, interessate oltre ad un data base di lavoratori e datori di lavoro che potrebbero essere disposti ad appoggiare l’iniziativa. E’ stato anche realizzato un questionario, un primo sondaggio per vedere chi e quanti vorrebbero vivere altrove perché non sono soddisfatti della loro quotidianità. Adesso bisogna vedere come e quando le autorità preposte prenderanno sul serio il progetto per poterlo rendere realizzabile a tutti gli effetti. Non resta che attenderne gli sviluppi.

Margherita Bonfilio

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