MILANO – In un’epoca in cui tutto corre — notizie, traguardi, relazioni, ambizioni — sembra quasi che il movimento in sé basti a giustificare ogni cosa. Si marcia, si accelera, si scala, si corre. Il successo viene misurato in chilometri orari, le vite si raccontano in risultati raggiunti, e il tempo sembra sempre troppo poco per tutto ciò che c’è da fare. Eppure, c’è una verità che spesso sfugge a chi vive con lo sguardo fisso sul cronometro: la velocità non serve a nulla se si va nella direzione sbagliata. La vita, come un viaggio, ha bisogno di una bussola più che di un tachimetro. La direzione, non la velocità: è questa la differenza tra chi si perde e chi si cerca. 
In una società che premia chi arriva primo, ci vuole coraggio per domandarsi se la meta valga davvero la corsa. Si accumulano esperienze senza sapere cosa cercare, si prendono decisioni in fretta perché il tempo stringe, si cambia strada senza fermarsi a capire se quella nuova porti davvero dove vogliamo andare. Ma il valore di un percorso non si misura nella sua rapidità, quanto nella coerenza con cui si avvicina al proprio senso. Ci sono parole antiche che lo ricordano da sempre. La filosofia greca parlava di telos, il fine ultimo dell’esistenza, qualcosa che guida l’agire più del successo immediato. I maestri orientali parlano di wu wei, l’agire senza forzatura, in armonia con il fluire naturale delle cose. E ancora: i viaggiatori di un tempo conoscevano il valore delle soste, dei bivi, delle deviazioni. Sapevano che non esiste una sola via, e che l’orizzonte non è un punto da raggiungere, ma uno spazio che si allarga man mano che si procede. Anche la psicologia lo conferma: le scelte più solide non sono le più veloci, ma quelle radicate in motivazioni autentiche.
Il benessere duraturo non nasce dalla corsa, ma dal cammino coerente con i propri valori. La cosiddetta grit, la tenacia che porta a risultati significativi, è fatta più di perseveranza e visione che di slancio. Le mete che davvero contano non si esauriscono in un traguardo, ma continuano a nutrire il senso del nostro procedere. E poi ci sono i sentieri interrotti, quelli che sembrano perdite di tempo ma che, col senno di poi, si rivelano necessari. Le deviazioni che ci fanno scoprire luoghi che non avremmo mai immaginato, gli ostacoli che ci obbligano a fermarci, a riconsiderare tutto. Anche quelli, paradossalmente, sono momenti di direzione. Perché scegliere di cambiare rotta richiede lucidità. E perché a volte è proprio nel perdere tempo che si guadagna comprensione.

Lamberto Maffei
Nel tempo delle startup che devono crescere in sei mesi, dei social che vivono di istanti, delle carriere che si bruciano prima ancora di consolidarsi, parlare di lentezza e orientamento sembra quasi fuori luogo. Ma forse è proprio questa la necessità del momento: reimparare a guardare lontano, a chiederci dove stiamo andando prima di preoccuparci di arrivarci presto. Lamberto Maffei, neuroscienziato e pensatore controcorrente, ha scritto che rallentare è un atto “antropologicamente rivoluzionario”. Perché la lentezza, nella sua accezione più profonda, non è inerzia, ma scelta. È il tempo del pensiero, della riflessione, della coscienza. È ciò che ci distingue dalle macchine, che agiscono con efficienza ma senza esitazione, e dunque senza dubbio.

Carlo Rovelli
Maffei ci ricorda che la fretta toglie all’uomo la facoltà più umana: quella di pensare con lentezza. E pensare con lentezza significa anche guardare il tempo con occhi nuovi. Carlo Rovelli, fisico e autore di pagine luminose sul senso del tempo, ci ha insegnato che esso non è un flusso assoluto e uniforme, ma una costruzione, una percezione, qualcosa che cambia a seconda di dove siamo e di come lo viviamo. Non esiste un tempo uguale per tutti, esiste il modo in cui noi lo abitiamo. In questo senso, rallentare non è soltanto una questione di ritmo, ma di sguardo: vuol dire accordarsi con il tempo interiore, non lasciarsi comandare da quello esterno. Un viaggio fatto di senso non si teme se procede piano. Anzi: ogni passo, ogni pausa, ogni esitazione può diventare parte di una traiettoria più profonda.
Anche l’incedere incerto ha una sua forza, se nasce da una direzione scelta con cura. È nella coerenza con ciò che siamo che un cammino diventa nostro. È nel silenzio tra una tappa e l’altra che spesso si fa chiarezza. In un certo senso, rallentare equivale a mettersi a fuoco. A disobbedire alla logica dell’urgenza per scegliere quella della profondità. Non è un gesto nostalgico né passivo: è un atto creativo. È decidere che non tutto deve essere efficiente, che non ogni gesto ha bisogno di un risultato, che esistono percorsi fatti per essere attraversati, non solo per essere conclusi. Certo, rallentare richiede coraggio. In un mondo che misura il valore in velocità e prestazioni, chi sceglie un altro ritmo appare fuori sincrono, forse persino in ritardo.
Ma ritardo rispetto a cosa? A chi? A quale traguardo imposto? Forse la vera questione è se valga davvero la pena arrivare primi, se si sta andando verso qualcosa che non ci somiglia. E allora fermarsi, ogni tanto, può diventare un modo per ritrovarsi. Non si tratta solo di andare più piano, ma di capire perché stiamo andando, e dove. Di recuperare una forma di presenza che oggi appare quasi clandestina: quella del corpo che si ascolta, dello sguardo che si posa, del pensiero che si concede tempo per germogliare. Forse, per progredire davvero, non serve correre più forte. Serve solo capire dove si vuole andare.
E avere il coraggio di andarci, anche lentamente.
Ivana Tuzi

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