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Il monito di Seneca: riprendiamoci la vita

di | 2023-04-23T10:07:04+02:00 23-4-2023 6:05|Cultura, Sezione 2|0 Commenti

MILANO – “Vindica te tibi” (“Riprenditi la tua vita”, Epistulae Morales ad Lucilium, I) è sicuramente tra le massime/sententiae più note di Seneca (4 a.C.- 65 d.C.), in cui l’intellettuale trasla un termine dal lessico specifico del diritto alla sfera privata ed invita Lucilio, in realtà l’umanità intera, a rivendicare appunto l’assoluta priorità dell’interiorità in rapporto all’esteriorità del mondo ed al fluire ininterrotto del tempo.

L’autore sottolinea quanto gli uomini non si rendano conto che tutti i beni materiali per la loro natura effimera possano essere sottratti dal caso o comunque dissolversi inesorabilmente e quanto invece gli stessi si ostinino a non capire che l’unico bene che appartiene loro è il tempo, di cui sono padroni. Così trascorrono una parte consistente della loro vita agendo male (male agentibus), la maggior parte non facendo nulla (nihil agentibus), mentre tutto il resto si perde facendo altro (aliud agentibus); quindi non è la vita ad essere breve, bensì l’approccio che ha con essa l’uomo a renderla tale “Vita, si uti scias, longa est” (La vita, se sai farne buon uso, è lunga).

Seneca

Ben potrebbero adattarsi, con le dovute differenze, le sue parole al nostro mondo, dove categorie quali il possesso di beni materiali talvolta patologicamente anche di persone, l’efficienza spinta alla perfezione estrema, il prestigio legato il più delle volte a criteri fatui sono riconosciute tra le più valide e quelle a cui bisognerebbe uniformare la propria vita. Inevitabilmente chiamata in causa è l’organizzazione del lavoro e quanto tempo questo assorba, sottraendo spazio agli affetti, alla cura della propria interiorità e di interessi non lavorativi; certo, il mercato ha i suoi imperativi di produttività ed il lavoro svolto con passione può essere fonte di gratificazioni, ma non dovrebbero mai divenire prioritari.

Riprova ne siano i numeri tragicamente sempre più in crescita di morti ed incidenti sul lavoro o ancora la cifra sbalorditiva di quanti (1 milione e seicentomila nei primi nove mesi del 2022 secondo il Ministero del Lavoro) hanno abbandonato il lavoro. Dato, quest’ultimo, che non può essere banalizzato e spiegato con un’unica motivazione, le cause sono molteplici e da ricercare in tanti fattori diversi quali la mobilità, gli effetti del Covid, l’aumento di dimissioni per esigenze familiari vista la carenza di servizi sociali, la necessità o forse il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale, l’incremento dei licenziamenti già bloccati dai provvedimenti adottati durante la pandemia.

Non ultima, tuttavia, è ipotizzabile una sempre più diffusa fragilità psicologica, un benessere mentale (bona mens di senecana memoria) sempre più instabile, come attestano i dati delle prime stime mondiali che riferiscono di 53 milioni di casi in più di depressione (+28%) e 76 milioni di casi in più di disturbi d’ansia (+26%) nel 2020 direttamente collegati alla pandemia. Passi indietro si registrano, nonostante gli inglesismi delle denominazioni, nelle dinamiche della gestione del personale nel cosiddetto jobs act; basti pensare alle norme per determinare flussi regolari di migranti su cui si è tornato a discutere in questo periodo.

Già negli anni settanta Max Frisch si esprimeva così: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini” in relazione alle politiche di reclutamento di manodopera straniera (italiana in larga misura) in Svizzera, denunciando la miopia di chi riduceva l’uomo a semplice parte meccanica di un processo produttivo; eppure si continua a voler ignorare che dietro quelle braccia, che siamo disposti ad accogliere, c’è tutta un’interiorità negata: legami, famiglie, tradizioni, luoghi abbandonati per la speranza di un futuro migliore. Altrettanto significativo soffermarsi su alcuni altri aspetti connessi, in qualche modo, con l’attuale fruizione frenetica del tempo, per cui chi non sta al passo viene tassativamente estromesso: anziani, disabili, emarginati.

I dati Istat ci danno la fotografia di un Paese sempre più vecchio: nel 2021 per ogni bambino si contano 5,4 anziani rispetto a meno di un anziano per ogni bambino del 1951; inoltre l’indice di vecchiaia, rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e quella con meno di 15 anni, è notevolmente aumentato e continua a crescere da 33,5% del 1951 a 187,6% del 2021 ed infine i nati, sempre nello stesso anno, sono stati appena 400.249.

È proprio vero “Italy is disappearing” (l’Italia sta scomparendo) e purtuttavia continua a diffondersi il cosiddetto ageismo, neologismo con cui si indica il pregiudizio nei confronti delle persone anziane, sminuendone il valore in relazione all’età. Il termine è decisamente brutto, ma eticamente ancora più indecoroso è escludere e tacciare quasi di inutilità individui che hanno lavorato per gran parte della loro vita, spesso percependo remunerazioni basse o comunque non proporzionali al tempo speso. Parafrasando alquanto liberamente il pensiero di Seneca che ha come riferimento il sapiens stoico (saggio), si può sostenere invece che la persona anziana è resa più forte dalla lunghezza del suo passato, mentre non si perde dietro a ciò che non è essenziale per la brevità del futuro e vive intensamente il presente.

In linea con quest’ottica predominante continuano parimenti ad essere esigui gli interventi politici finalizzati a garantire processi di integrazione per tutti coloro che hanno “tempi diversi e modi diversi” di vivere e intendere la realtà ed altrettanto modesti quelle destinati al superamento del disagio sociale per un’inclusione duratura. I percorsi interiori non coincidono con le leggi del mercato che attribuisce al tempo solo un’importanza economica: pianificazione, ottimizzazione, gestione dei costi non possono essere criteri per l’uomo, se considerato nella sua interezza; di conseguenza non sempre trovano collocazione timesheet da redigere e rispettare rigidamente.

Seneca, alla cui intera produzione è trasversale il senso della precarietà e della fugacità, correla la saggezza al tempo prefigurando per l’uomo virtuoso un trionfo finale, dal momento che il sapiens domina il tempo come un dio (ut deo) e ne trasforma il valore da quantitativo a qualitativo. “Pensa sempre alla qualità della vita, non alla quantità” (Cogita semper qualis vita, non quanta sit) è il monito del filosofo in “De brevitate vitae” (La brevità della vita).

Adele Reale

 

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