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Il canto corale come espressione di unione e di gioia

di | 2025-06-27T12:25:54+02:00 29-6-2025 0:45|Sezione10, Spettacolo|0 Commenti

NAPOLI – Qualche giorno fa si è svolto un concorso proposto dalla Curia di Napoli per rendere pubblico il lavoro svolto da gruppi comunitari che occupano parte del loro tempo per animare e tenere in vita la tradizione del canto corale che ha sempre più difficoltà a mantenersi in vita. Noi del “Laudate dominum” ci siamo presentati timorosi ma con il gusto di cantare, di testimoniare ciò che ci tiene insieme, ciò che Giussani ha sempre ripreso e cioè quello che affermava Sant’Agostino: “Cantare è proprio di chi ama e chi canta prega due volte”. Siamo arrivati secondi su una decina di gruppi partecipanti, alcuni per la verità costituiti da cantanti professionisti.

Noi, come è nostro solito, abbiamo cantato a cappella (il termine cappella viene dalla chiesa di San Martino di Tours, nella quale era conservata come una reliquia la cappa di san Martino). Coro, comunità, essere insieme, unione, unità. Ecco, il coro è l’espressione più alta di unità, si guarda tutti la stessa parte, si guarda il capo coro. L’esperienza ci ha suggerito una cosa importante: si è uniti quando si ha unità d’intenti. Si canta per qualcosa d’altro, si canta tutti per la stessa cosa, altrimenti stoni, stai fuori; si canta per stare insieme, possibilmente bene. Ma troppo spesso, soprattutto per certi generi contemporanei dietro musica o frastuono che sia si nasconde un grande vuoto fatto di selfie, di like, di messaggi per dire: io ci sono ma in fondo… non ne ho coscienza.

Don Luigi Giussani

E così, dopo l’esibizione al Duomo, ci siamo fermati per esprimere un giudizio, tirare un po’ le somme perché questo gesto non poteva passare inosservato. E vengono in mente alcuni passi di Don Giussani: “Nessuna espressione dei sentimenti umani è più grande della musica. Chi non è toccato da un concerto di archi, come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte? Sembra il massimo. Eppure quando sento la voce umana… non so se capita anche a voi ma è ancora di più e di più non si può. Quello che fa crescere è cantare per qualcuno, esprimere la coscienza di un popolo ed è l’espressione più autentica dell’uomo, se l’uomo è uomo, che è tale se appartiene”. E ancora: “Il canto nella sua peculiarità, se vissuto nel suo significato più vero è, come espressione umana, come strumento di comunione un reale servizio alla società”.

Pochi in giro cantano, c’è sempre, purtroppo, un ronzio di canzoni che sfuggono a cuffie e saltano fuori da tutte le parti. C’è una colonna sonora che ci insegue ovunque e che noi non scegliamo, ci sono le “persecuzioni estive” che ci assillano. Di gran moda sono le folle radunate dal karaoke o da cantautori fasulli. Queste canzoni e le esibizioni di questi fenomeni sono il segno della corruzione indicibile di un’epoca. Il canto, invece di essere espressione di un popolo, diventa la ripetizione ossessiva, sentimentaloide, delle ombrosità e delle fisime dei singoli. Ma allora è proprio vero che il singolo ha preso il sopravvento su una comunità? Si è magari in tanti ad ascoltare e a riconoscersi in quelle note e in quelle frasette. Ma si resta in frantumi. Collettivamente soli.

Krokus

È l’esperienza che ultimamente si fa ascoltando la miriade di cantanti (?) che nascono e finiscono nel giro di pochissimo tempo. È l’esperienza quotidiana che si vive ascoltando canzonette (sono solo…) che esprimono solo una negatività (ma è la descrizione della realtà, così afferma mio figlio); intanto non trovo uno spiraglio di bene, un’attesa, un desiderio. Musicalmente quasi nulla, qualche sintonizzatore e niente più. Ma quello è un genere, che ne sai? Ma a me questo genere non dice nulla, non lascia un motivetto da fischiare (come diceva Mark Storace cantante del gruppo hard rock dei Krokus se a fine canzone non ti resta in testa un motivo la canzone è da scartare).

Lucio Battisti

Qualche anno fa, e neanche tanto, si cantava insieme, ci si riuniva attorno ad una chitarra e si cantava a squarciagola: Bennato, Battisti, Guccini, De André. Ora sembra che si canti, se mai lo sia possibile, per dividere, per esaltare un io solo, distinto, solitario, disunito. Davvero è impossibile un canto di popolo oggi? Quello che aiuta maggiormente dal punto di vista espressivo, quel che proprio fa crescere, è cantare per la qualcuno. Questa è la differenza tra un bravo cantante e chi canta per degli amici, per chi condivide con te qualcosa, una storia. Si esprime la coscienza, la voce di un corpo, di un popolo, di un destino.

Per questo il contenuto della preoccupazione non può essere l’espressione di sé, ma l’esprimere la coscienza di questo popolo. Per questo, il coro, il canto, è il servizio più utile e gratuito per la comunità. Si canta, e il canto esce dal petto e dalla gola dicendo una coscienza e se questa non c’è si canta male, si evidenzia un disfacimento dell’io. È diffusa una pigrizia, una inerzia… ma è soprattutto aridità. Essa domina la società di oggi. Ma è precisamente con il canto che si vanga in questo terreno secco fatto di personalismi, solitudine e silenzio. E allora che si ricominci a condividere il canto con amici, a riprendere lo stare insieme per sentirsi l’uno con l’altro, per tornare ad essere comunità.

Innocenzo Calzone

Giornalista pubblicista, architetto e insegnante di Arte e Immagine alla Scuola Secondaria di I grado presso l’Istituto Comprensivo “A. Ristori” di Napoli. Ha condotto per più di 13 anni il giornale d’Istituto “Ristoriamoci”. Partecipa e promuove attività culturali con l’associazione “Giovanni Marco Calzone” organizzando incontri e iniziative a carattere sociale e di solidarietà. Svolge attività di volontariato nel centro storico di Napoli con attività di doposcuola per ragazzi bisognosi; collabora con il Banco Alimentare per sostenere famiglie in difficoltà. Appassionato di arte, calcio e musica rock.

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