NUORO – Hannah Arendt, filosofa tedesca della politica, scrittrice e storica ebrea, nacque ad Hannover il 14 ottobre 1906 ma fu costretta a lasciare l’Europa durante il periodo nazista per trasferirsi in America, dove visse il resto della sua vita. Morì il 4 dicembre 1975 in seguito ad un attacco cardiaco e, dopo la cremazione, le sue ceneri furono sepolte accanto a quelle del marito Heinrich Blücher al cimitero del Bard College, ad Annandale-on-Hudson, New York. Si fece conoscere come teorica politica con il volume “Le origini del totalitarismo”, ma soprattutto per il volume “La banalità del male”, reportage controverso sul processo Eichmann, una delle figure chiave della “soluzione finale della questione ebraica”.

Hannah Arendt
Dopo la fine della seconda guerra mondiale Eichmann fuggì dapprima in Siria (1948), successivamente in Argentina, lungo la cosiddetta ratline, un sistema di vie di fuga attraverso cui i criminali di guerra e i collaborazionisti nazisti scappavano, in prevalenza verso l’America Latina, per evitare i processi a loro carico in Europa. Eichmann visse con documenti falsi sotto i nomi di Ricardo Clement e Otto Henninger, ma l’11 maggio 1960 fu arrestato a Buenos Aires da agenti israeliani del Mossad. Fu portato in Israele il 22 maggio 1960 e il giorno successivo il giudice distrettuale di Haifa emise il mandato di cattura contro di lui. L’11 aprile del 1961 a Gerusalemme iniziò il processo contro di lui che si concluse con la condanna a morte per impiccagione.

Adolf Eichmann al processo del 1961 a Gerusalemme
Ne “La banalità del male” Hannah Arendt analizzò le questioni più cruciali del Novecento spiegando “come persone ordinarie divengano attori partecipi degli ingranaggi dei sistemi totalitari”. La Arendt riteneva che l’atomizzazione sociale, ossia la base per l’avvento dei sistemi totalitari in cui le masse sono manipolate dalle élite, e l’alienazione degli individui, caratteristica tipica delle società contemporanee, costituisse il presupposto che favorisce l’instaurazione della forma di governo totalitaria. Allieva di Husserl e Heidegger, la Arendt venne inviata dal settimanale The New Yorker a partecipare alle udienze del processo di Adolf Eichmann. Scrisse cinque articoli per la rivista tra il febbraio e il marzo del 1963 e nel maggio dello stesso anno, con integrazioni, uscirono in forma di libro che è sostanzialmente il diario dell’autrice.

Hannah Arendt alla macchina da scrivere
Dal dibattimento in aula la Arendt ricavò l’idea che il male perpetrato da Eichmann e dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili dell’Olocausto non fosse dovuto a un’indole malvagia ben radicata nell’anima, come aveva sostenuto nel suo saggio dal titolo “Le origini del totalitarismo”, ma all’inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. La Arendt sintetizzò queste idee nella formula “la banalità del male”. Secondo la filosofa, Eichmann pertanto non era intrinsecamente cattivo, ma semplicemente superficiale e inetto, un “joiner”, ossia uno che “va dove tira il vento”. Nell’opinione della Arendt, il processo ad Eichmann venne basato prettamente su distinzioni etniche e religiose. L’imputato era accusato di crimini “contro il popolo ebraico” e di crimini contro l’umanità “commessi sul corpo del popolo ebraico”, oltre ad essere strumentalizzato dalla politica del giovane Stato d’Israele.
Nel pensiero di Hannah Arendt, per un essere umano, l’essere un volontario inconsapevole, il braccio intenzionalmente inconsapevole di qualcun altro è male, ed è qualcosa di comune e banale che il potere può organizzare e utilizzare in tantissimi modi. Eichmann era un uomo “semplicemente senza idee, non stolto o stupido”, e “tale mancanza di idee fece di lui un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Adolf Eichmann era un uomo mediocre. Viveva di idee altrui e si attribuiva meriti non suoi pur di sfuggire alla mediocrità, e sarà proprio questo a metterlo nei guai nel 1957 quando rilasciò un’intervista al giornalista ed ex-SS Willem Sassen, stanco della vita poco stimolante che gli offriva il suo nascondiglio in Argentina, per rivivere le emozioni dei giorni in cui si sentiva realizzato.
Secondo la Arendt, durante la fase del dibattimento processuale, “quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua capacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano”. La sua mancanza di memoria lo condannò a non poter mai controbattere alle accuse dal momento che “ricordava solo i propri successi personali, i suoi stati d’animo e le frasi fatte ad essi collegate”.
Durante il Processo di Norimberga molti cercarono di scaricare su di lui le proprie responsabilità, ritenendolo morto, ma Eichmann era solo il capo dell’ufficio B4 sottosezione 4 dell’RSHA, cioè dell’ufficio per la sicurezza nazionale delle SS. A lui si deve l’organizzazione di Theresienstadt, o ghetto di Terezín, una struttura di internamento e deportazione utilizzata dalle forze tedesche durante la seconda guerra mondiale, tra il 24 novembre 1941 e il 9 maggio 1945. Quando si rese conto di essere pedinato dai servizi segreti israeliani, si lasciò catturare senza resistenza, esaltandosi perché con la sua condanna a morte avrebbe espiato i peccati della Germania nazista.
La sentenza lo riconobbe responsabile di crimini contro l’umanità e crimini contro gli ebrei favorendone lo sterminio, facendoli vivere in condizioni che avrebbero portato alla morte, causando danni psicologici e impedendo ulteriori nascite. Venne però accettata la tesi secondo cui egli avrebbe solo reso possibile lo sterminio, ma non lo avrebbe messo in atto personalmente. Secondo la Arendt nessuno fu responsabile dell’Olocausto, o nessuno si sentì responsabile di gesti tanto efferati e crimini disumani. Chi agì contro gli ebrei fece solo il proprio lavoro. Lo stesso Eichmann si sentì vittima di un’ingiustizia, e si convinse di pagare per le colpe commesse da altri. Lui era solo un burocrate che faceva il proprio lavoro.
Secondo la filosofa, la sentenza non fu del tutto soddisfacente. Sebbene la conclusione sia stata giusta, per evitare che quanto successo possa ripetersi, si sarebbe dovuto definire un valido motivo per cui Adolf Eichmann fu condannato, poiché già a Norimberga si sollevò il problema che egli non avesse violato alcuna legge già in vigore. Attenendosi alle leggi di Israele Eichmann fu condannato a morte. La Arendt perciò affermò che la legge del taglione, secondo cui “una comunità offesa ha il dovere di punire il criminale”, sostenuta dal giurista Yosal Rogat, sia stata “la vera ragione della sua condanna a morte, e poiché Eichmann era stato implicato e aveva avuto un ruolo centrale in un’impresa il cui scopo dichiarato era cancellare per sempre certe ‘razze’ dalla faccia della terra, per questa doveva essere eliminato”.
Ma Eichmann era semplicemente una persona completamente calata nella realtà che aveva davanti. Per lui aveva valore solo lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche. Più che l’intelligenza gli mancava la capacità di immaginare cosa stesse facendo. “Non era stupido: era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”.
Il concetto di banalità del male proposto da Hannah Arendt ha implicazioni profonde per la società contemporanea e la nostra comprensione della natura umana. L’autrice de “La banalità del male” ci mette in guardia contro l’assunzione che il male sia sempre il risultato di intenzioni malvagie o di individui patologicamente devianti. Il peggior difetto che rovinò Eichmann, secondo la Arendt, fu la millanteria, cioè la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri. Per la filosofa pertanto la banalità del male non rappresenta altro se non “l’assenza di pensiero”, cioè di dialogo interiore, di riflessione che solitamente dovremmo essere portati a fare quando ci interroghiamo sul nostro agire morale e sui concetti di bene e male. Eichmann rappresentò, per la Arendt, l’assenza di pensiero nell’uomo, o meglio l’incapacità di pensare in maniera indipendente.
Virginia Mariane
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