NUORO – Nato dall’ex convento di San Girolamo grazie a fondi concessi dal benefattore Giuseppe Niccolò Viti e dai locali donati dalla Congregazione di Carità, il Manicomio di Volterra (in provincia di Pisa) operò a partire dal 1881 sotto il nome di Ospizio di Mendicità. Nel 1897 venne trasformato in Asilo dei Dementi, successivamente, nel 1902, in Frenocomio di San Girolamo ed infine, nel 1934, in Ospedale neuropsichiatrico. A partire dal 1939 venne quindi inserito nella rete degli Istituti ospedalieri e di ricovero della città di Volterra. Vennero edificati circa 30.000 m² di superficie atti ad ospitare 4.547 degenti al massimo.
Dell’enorme struttura originaria oggi rimangono tanti padiglioni. Alcuni si trovano in stato di abbandono, altri sono entrati a far parte della struttura del nosocomio di Santa Maria Maddalena. Grazie alla comunicazione digitale, ai racconti, alle foto, alle testimonianze di chi ha avuto contatti con la struttura o con i vecchi degenti, in questi anni si sta cercando di ridare voce a ciò che rischia di perdersi nel tempo. Ciò non riguarda solo la storia o la memoria del Manicomio, ma soprattutto la vita di alcuni dei pazienti dimenticati da medici, amici e familiari.
La nascita dei manicomi in Italia risale alle fine del 1800. All’epoca in Toscana gli istituti che si occupavano di problemi mentali o, ancor peggio, di persone che rappresentavano un rischio per la società o semplicemente un imbarazzo come gli sbandati, i senzatetto o gli oppositori politici erano pochissimi. Succedeva persino che la provincia di Pisa dovesse inviare i propri malati presso l’Ospedale San Niccolò di Siena pagando per ogni malato una retta di 1,50 lire al giorno. Pertanto, per questioni di economia, si pensò di cercare un istituto che permettesse di ridurre le spese. Volterra si offrì di ospitare i malati di Pisa ammortizzando le spese con una retta di 1 sola lira per persona. Volterra poteva permettersi di abbassare tanto i costi perché era una cittadina ricca. Ospitava nel suo territorio le Saline e questo la esonerava dal pagamento della tassa sul sale.
Iniziò dunque ad ospitare i malati provenienti da altre province, e quando Pisa decise di riportare i degenti nelle strutture della città, Volterra capì che se non voleva perdere l’opportunità di guadagni sempre maggiori doveva ampliare i propri spazi ed aumentare il numero dei pazienti. Sotto la direzione del dottor Scabia, il Manicomio di Volterra, conosciuto anche come “l’Asilo dei dementi”, cominciò a praticare “l’ergoterapia”, ossia la terapia occupazionale. Il medico riteneva che, tenendo occupati i malati, soprattutto quelli violenti, questi potessero divenire meno aggressivi. Allo scopo vennero fatti costruire edifici come la falegnameria, la lavanderia, la fornace e la panetteria e i degenti divennero la “forza lavoro” impiegata al suo interno.
Secondo il progetto del dottor Scabia furono edificati nuovi padiglioni costruiti in modo irregolare, con grandi stanze ben areate e illuminate per rispondere alla terapia del “No-restrainct”. Il fine era quello di non far percepire ai malati l’idea di essere costretti e prigionieri di un luogo. Si sarebbero dovuti ridurre al massimo i mezzi di contenzione e i pazienti avrebbero potuto girare liberamente per i locali della struttura, una sorta di “villaggio-manicomio”, cercando di mantenere, per quanto possibile, una vita autonoma. Le finestre dovevano essere sbarrate, ma in modo “mascherato”, così da non far sentire i malati dei prigionieri. In realtà, il Manicomio di Volterra era una sorta di carcere travestito.
A causa di pressioni esterne, il dottor Scabia fu costretto ad accettare la costituzione di almeno 3 padiglioni di costrizione: Charcot, Maragliano e Ferri. Questo lo indusse ad anticipare il pensionamento. La struttura originaria si trasformò così in un ospedale criminale giudiziario dove ospitare i malati che avevano commesso dei reati e “togliere di mezzo” le persone scomode. A permettere ciò fu soprattutto la legge n.36 del 14 febbraio del 1904 denominata “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”. L’alleanza tra psichiatri e tutori dell’ordine favorì il ricovero coatto, o meglio la carcerazione non solo di malati di mente, i cosiddetti “pazzi”, ma di alcolisti, paralitici, degenerati, pellagrosi, soggetti spesso a dare scandalo e che, così, smettevano di essere un problema per la famiglia e la società. Finirono in manicomio anche orfani, poveri, prostitute e durante il regime fascista anche omosessuali.
Dopo le opere di ampliamento i “malati” passarono dai 300 di inizio ‘900 ai quasi 5000 del 1938 ed i padiglioni raggiunsero quota 40. Di questi 15 vennero utilizzati come laboratori, gli altri per la degenza dei pazienti. Era diventata normalità, risvegliarsi legati ad un letto del manicomio, anche solo dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo. Per essere ricoverati bastava la firma di un medico che attestasse la “pericolosità del malato per sé stesso e per gli altri”. Non venivano eseguite visite specialistiche o particolari controlli, ma risvegliarsi in un letto, con i polsi legati, senza potersi muovere e senza conoscere le motivazioni del ricovero coatto in manicomio, portava anche le persone più “normali” a divenire facilmente “pazze”.
Tra le storie più assurde legate al manicomio di Volterra ve n’è una riguardante il Reparto Ramazzini che, per un periodo abbastanza lungo, ospitò un’intera comunità di sardi colpevoli di parlare in dialetto stretto, senza conoscere l’italiano. Quando sbarcarono al porto di Pisa nessuno era in grado di capire cosa dicessero e così vennero presi ed internati. Vennero salvati, fortunatamente, da un giovane dottore che capì il grosso errore che si stava commettendo nei loro confronti perché anche lui veniva dalla Sardegna, ma aveva avuto l’opportunità di imparare l’italiano grazie ai suoi studi.
Confinare una persona in manicomio era per lo Stato una forma di assicurazione che garantiva che il malato non sarebbe più stato un problema. Chi entrava in una struttura del genere infatti raramente ne usciva. La struttura del Manicomio di Volterra era tanto richiesta e ciò comportò, nel tempo, il suo adeguamento alle nuove richieste di capienza per accogliere nuovi malati. Durante la direzione dell’ospedale del dottor Scabia si operò anche per la costruzione della rete elettrica e fognaria. Nel 1948, con la direzione del commissario prefettizio Pintor Mameli, i padiglioni Bianchi e Chiarugi vennero destinati alla rieducazione dei minori. Con l’entrata in vigore della Legge Basaglia, legge 180/1978, dall’ospedale Psichiatrico vennero dimessi numerosi pazienti. L’Ospedale psichiatrico si preparò così alla chiusura e alla trasformazione di alcuni edifici in casa-famiglia, per l’accoglienza degli ex degenti, con la finalità di garantire loro una certa autonomia e il reinserimento nella società.
Oggi del Manicomio di Volterra rimangono numerosi edifici fatiscenti in stato di abbandono. Quelli ancora in uso però ospitano una casa famiglia sotto la direzione dei servizi sociali, e dal 1° dicembre 2015, a seguito della soppressione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, con la legge 81/2014, è stata istituita una REMS, acronimo per Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, una sorta di “manicomio criminale” con una capienza di circa 30 detenuti.
Il primo edificio del Manicomio di Volterra che i malati conobbero fu la cosiddetta “Fagotteria”. Questa struttura oggi ospita il museo. Qui si lasciavano i propri beni in un fagotto e veniva assegnato al ricoverato un numero identificativo. Da quel momento non si era più una persona, ma un numero, e quel numero si sostituiva al nome fino alla morte, non diversamente da quanto accadeva nei lager nazisti. Nel Cimitero di San Finocchi, a circa 3 km dal complesso dell’ex Manicomio di Volterra, è possibile vedere delle lapidi prive di nome, di data di nascita o di morte, dove è visibile solo un numero identificativo di chi ha lasciato questa vita. Assai raramente qualche parente ha riconosciuto il malato defunto, e non sempre gli si è restituito il nome e la dignità perduta.
Dopo la legge Basaglia del 1978, a causa della diminuzione del numero dei ricoverati, per il Manicomio di Volterra iniziò una fase di decadimento. La natura così si è riappropriata di quel luogo nascondendo agli occhi dei passanti le palazzine cadute in disuso ed in parte crollate, e l’orrore spesso consumato al loro interno. Oggi, chi si reca a visitarlo viene accolto da stanze fatiscenti, buie, pervase da un forte odore di muffa. Gli ambienti sono scabri, privi di oggetti e in passato poterono contenere fino a 10 persone per camerata. Chi presentava problemi agli occhi venne privato degli occhiali, per rendergli le giornate più vuote, tristi e difficoltose. Oggi di quelle stanze gremite non resta che il ricordo, ma alcune foto e dei manichini sostituiscono chi qui trascorse gran parte della propria vita.
Il primo padiglione, lo Charcot, inizialmente ospitò le donne che si occupavano dell’orto e della lavanderia, poi divenne un edificio di contenimento. L’isolamento, l’elettroshock e la lobotomia furono le forme di terapia adoperate per contenere le reazioni dei “detenuti”. Si dice che il Padiglione Charcot sia uno dei 10 luoghi in Italia maggiormente infestati dagli spiriti. Ai malati veniva negata ogni forma di comunicazione con l’esterno e, sebbene loro fosse concesso di scrivere delle lettere, più per sfogo che per altro, nessuna di queste venne mai recapitata. Una volta entrati in manicomio si veniva dimenticati e le visite dei familiari non erano consentite. L’ unico momento di svago per i ricoverati, privati anche dell’affetto della famiglia, almeno durante la direzione del Manicomio del dottor Scabia, fu il celebre “Carnevale dei Matti” che si svolgeva nella Sala degli Aranci all’interno dello Charcot.
Il Padiglione Maragliano ospitò i malati di tubercolosi e oggi questa struttura è completamente inglobata nella vegetazione; nel Padiglione Ferri, invece, finì chi aveva avuto qualche guaio con la giustizia. Fernando Oreste Nannetti, il famoso NOF4, finì a Volterra per aver insultato un carabiniere. Riconosciuto come uno dei maggiori esponenti di Art Brut, produsse arte senza la consapevolezza di fare arte. La sua opera più importante è nata proprio sulle mura dell’ex manicomio di Volterra. Si tratta di un murales di 180 metri che decorava il cortile del Ferri, “un muro di reclusione che per Nannetti fu un diario di libertà” (cit. Andrea Trafeli).
“Un’opera con la quale urlare al mondo il proprio diritto ad esistere; una ricerca di dignità per sé stesso e per chi con lui condivideva la vita in manicomio”. Fernando trascorse qui circa 10 anni. Quando usciva in cortile con la linguetta in metallo della fibbia del panciotto iniziò ad incidere la parete. Aldo Trafeli, all’epoca infermiere presso il Manicomio, capì che quelle parole erano degne di essere fatte conoscere al mondo senza venire dimenticate o rimanere prive di significato. Mostrò, così, a chiunque, anche a chi aveva sempre voluto disconoscere gli orrori di Volterra, un’opera che parla di dignità, di scoperte fantascientifiche, di famiglia e nella quale Fernando reclamava il proprio diritto ad essere considerato al pari di altri esseri umani. “Siamo persone e ci meritiamo di essere trattati con dignità”. Aldo Trafeli chiese al fotografo Pier Nello Manoni di imprimere su pellicola quest’immenso lavoro, poi, dalla collaborazione con Mino Trafeli, nacque il libro “NOF4, il libro della vita”.

Il cimitero del Manicomio di Volterra
Per salvare il murales dopo la chiusura del manicomio venne costruita una tettoia protettiva. Nel 2010, Aldo è venuto a mancare, ma la sua passione ed il suo impegno sono stati portati avanti dai figli e dagli amici che hanno dato vita alla ONLUS “Inclusione Graffio e Parola” che lavora per salvare il murales, facendolo conoscere nel mondo e destinando fondi per il distacco ed il ricollocamento presso la biblioteca-museo. Vi è una storia molto particolare legata a quest’opera che non certo fu una dimenticanza del suo autore. Sulla panchina davanti al muro tre degenti del manicomio trascorrevano le proprie giornate catatonici, senza mai muoversi se non spostati da qualcuno. Nannetti, “ambasciatore della dignità umana”, per non disturbarli realizzò il murales attorno alle loro teste. Così è possibile ammirare 3 spazi bianchi a memoria di questa condizione.
Virginia Mariane
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