MILANO – Un dolce ripieno al pistacchio, avvolto in uno spesso strato di cioccolato al latte, spezzato lentamente davanti alla telecamera. Il cuore verde si scioglie, scivola, cola, in un effetto visivo che — in pochi secondi — ha attraversato milioni di schermi in tutto il mondo. È così che una semplice barretta di cioccolato, prodotta da una pasticceria artigianale di Dubai, è diventata un fenomeno virale globale. Nato da un’idea del marchio Fix Dessert Chocolatier, il “Dubai chocolate” fonde ingredienti di ispirazione mediorientale — come pistacchi, datteri, crema di knafeh — con l’estetica occidentale del luxury food. Il risultato è un prodotto che, al di là del gusto, si impone visivamente. A fare la differenza, tuttavia, non è stata la ricetta, ma la sua presentazione: video brevi, montati con attenzione, spesso accompagnati da suoni ASMR e tagli studiati per esaltare la consistenza del ripieno.
La diffusione del fenomeno è avvenuta in modo fulmineo: nel giro di poche settimane dalla pubblicazione dei primi video su TikTok, la barretta ha raggiunto lo status di trend internazionale. Influencer e utenti comuni hanno contribuito a consolidarne l’immagine di “dessert del momento”, generando un ciclo di domanda virale che ha rapidamente superato i confini degli Emirati Arabi. Il concetto stesso di Dubai chocolate si è svincolato dall’origine geografica, diventando un’etichetta condivisa per un’intera categoria di dolci: cremosi, spessi, instagrammabili. Il prodotto infatti è stato replicato in decine di varianti, imitato da pasticcerie, ristoranti e persino catene di distribuzione europee. Lindt ha lanciato varianti al pistacchio che strizzano l’occhio all’originale, mentre Lidl ha reso disponibile una propria interpretazione accessibile al grande pubblico. Così, da prodotto di nicchia, il cioccolato di Dubai è diventato un caso industriale e culturale.
Ma come spesso accade quando qualcosa diventa virale, è seguita un’ondata di imitazioni, spesso improvvisate, non sempre all’altezza. In alcuni Paesi europei, le autorità sanitarie hanno lanciato l’allarme su prodotti contraffatti contenenti ingredienti scadenti o addirittura pericolosi. Un monito che ricorda quanto la corsa alla viralità possa sacrificare la qualità sull’altare del profitto. Tuttavia il successo di questo prodotto non può essere letto unicamente come un fenomeno gastronomico. Al contrario, rappresenta una sintesi perfetta delle dinamiche culturali e mediatiche della contemporaneità. In primo luogo, l’attenzione al contenuto visivo ha ormai superato quella per il gusto. Non importa tanto cosa si mangia, quanto come appare. Il cibo è contenuto da mostrare, più che esperienza da vivere. Si consuma con gli occhi, si condivide con uno swipe. In secondo luogo, la forza propulsiva della viralità è oggi capace di determinare il valore percepito di un oggetto in modo indipendente dalla sua qualità intrinseca. Una barretta come tante, che fino a pochi mesi fa sarebbe passata inosservata, diventa all’improvviso introvabile, desiderata, imitata.
La narrazione collettiva costruita attorno a un video virale è sufficiente a trasformare un bene ordinario in un simbolo culturale. Questo processo non riguarda solo il cibo: è il meccanismo stesso della popolarità online, applicato a oggetti, abitudini, stili di vita. La rapida ascesa del Dubai chocolate riflette una società che privilegia il consumo veloce dell’immagine, in cui ogni esperienza — anche la più semplice — può diventare veicolo di autoaffermazione. Il caso della barretta virale solleva una questione più ampia: il rapporto tra desiderio e consumo. La rapidità con cui un contenuto può diventare globale dimostra quanto sia labile il confine tra piacere autentico e impulso indotto. L’esperienza gustativa è spesso secondaria rispetto all’atto del mostrarsi mentre la si compie. Ciò non significa che tali fenomeni vadano respinti. Al contrario, essi offrono una lente utile per osservare le priorità della società contemporanea: la centralità dell’immagine, il potere dei social network, la velocità con cui cambia il concetto stesso di “tendenza”.
Tuttavia, pongono anche interrogativi sulla sostenibilità di un sistema che genera — e consuma — simboli culturali con la stessa efficienza con cui produce contenuti digitali. Dietro la confezione dorata e il ripieno verde brillante, resta un fatto ineludibile: si tratta, pur sempre, di una barretta di cioccolato. Una barretta che, in altre circostanze, potrebbe passare inosservata sugli scaffali di un supermercato. Ma quando l’immaginazione collettiva la elegge a fenomeno virale, essa smette di essere solo un dolce: diventa una storia da vivere, da raccontare, da replicare. È qui che si manifesta il potere sorprendente della viralità: rendere epico l’ordinario, trasfigurare un semplice morso in un’esperienza da condividere e, inevitabilmente, desiderare. Alla fine, che si tratti di arte pasticcera o marketing geniale, di estro mediorientale o furbizia da social, quel che resta è il desiderio. Desiderio di bellezza, di gusto, di partecipazione. E in un mondo dove anche il cioccolato può diventare linguaggio, ogni morso è una storia che vale la pena ascoltare. Anche – e soprattutto – quando nasce da una semplice barretta.
Ivana Tuzi
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