//Jekill o Hyde? Lui sarà sempre e solo Dieguito

Jekill o Hyde? Lui sarà sempre e solo Dieguito

di | 2020-11-29T06:48:19+01:00 29-11-2020 6:49|Punto e Virgola|0 Commenti

Dottor Jekill o Mister Hyde? L’eterna dicotomia letteraria si carnalizza perfettamente in Diego Armando Maradona, scomparso qualche giorno fa a 60 anni in Argentina. Nell’effluvio di ricordi, parole e lacrime che ha salutato il campione in patria, a Napoli e nel resto del mondo, viene alla mente proprio il celebre romanzo di Stevenson: tanto abile e inarrivabile in campo, quanto fragile e imperfetto fuori. Ma sarebbe profondamente sbagliato scindere le due figure e cercare di separarle: no, Dieguito era uno solo con i suoi pregi e i suoi difetti, con le ineguagliabili magie calcistiche e le drammatiche miserie umane che ne hanno sempre caratterizzato l’esistenza.

Diego con la maglia del Napoli

Sul prato verde esprimeva e impersonava la bellezza e la purezza del calcio: dribbling secchi, tiri impossibili, capacità tecniche superlative. Nonostante un fisico che, almeno in apparenza, mal si addiceva ad un atleta: basso e tracagnotto (“E’ tutto testa e culo” aveva detto il medico alla madre che lo aveva appena partorito), eppure imprendibile nelle finte e negli scatti che mettevano a sedere i difensori avversari. “Sgorbio divino” lo aveva soprannominato Gianni Brera, cantore di un calcio che oggi non esiste più. Sicuramente il migliore di sempre, più di Pelè per due ragioni fondamentali: aveva giocato e vinto in Europa (al contrario dell’asso brasiliano che aveva sempre rifiutato di spostarsi, preferendo le comodità e le “gentilezze” del calcio di casa) e aveva giocato e vinto in squadre non trascendentali portandole al successo praticamente da solo (mentre il Santos e il Brasile garantivano quantità di talento illimitato alla “Perla nera”).

Fuori dal campo e dopo l’allenamento (in verità si allenava poco, ma quando lo faceva, era sempre pressoché irreprensibile) cominciava un’altra storia: droga (cocaina soprattutto), alcol, donne… Come facesse ad essere così forte nonostante una vita sregolata e dissipante, resta tuttora un mistero. Rientrava a casa dopo ore di bagordi, feste e sesso sfrenato nei locali notturni, poi dormiva tutto il giorno e magari alle 15 era puntuale al campo o, quando proprio non ce la faceva, tirava fuori un dolorino per evitare le sedute atletiche. Non gli mancavano i mezzi economici naturalmente, ma a lui tutto era dovuto, quasi un obbligo. Ha seminato figli in ogni angolo del pianeta, compreso uno a Napoli (Diego junior) riconosciuto solo quando il ragazzo aveva ormai 17 anni. E poi amicizie spericolate in ambienti camorristici, problemi col fisco italiano, rapporti tesi con le istituzioni calcistiche mondiali, anche qualche colpo di fucile per allontanare curiosi troppo invadenti. Sempre al limite, spesso anche oltre.

Era nato a Buonos Aires in un Barrio malfamato dove aveva conosciuto la miseria e la fame, ma la sua seconda patria fu Napoli che lo aveva accolto e adottato, permettendogli tutto: protetto e adorato, difeso e coccolato. Persino aiutato, purtroppo, nei suoi quotidiani eccessi. E lui ripagò il popolo partenopeo con due scudetti e una Coppa Uefa (l’attuale Europa League) vinti quasi da solo. Soprattutto con un affetto e una dedizione che si sono manifestati in questi giorni. Proprio nel “suo” stadio, il San Paolo (che entro breve porterà per sempre il suo nome), guidò alla vittoria l’Argentina nella semifinale dei Mondiali del ’90 contro l’Italia. E nella successiva finale di Roma contro la Germania mormorò “hijos de puta” (figli di…) ai beceri tifosi azzurri che fischiavano l’inno argentino.

Lui, figlio dei Barrios di tutto il mondo, fu anche capace di segnare due gol all’odiata Inghilterra che aveva maltrattato i suo compatrioti nell’inutile guerra per le Isole Falkland (o Malvinas alla spagnola): uno memorabile (il più bello di sempre) superando 6-7 avversari in dribbling (compreso il portiere) e l’altro, il più beffardo, segnato di mano. La “mano de Dios”, commentò sghignazzando davanti ai microfoni di mezzo mondo. Quando, dopo l’ennesima resurrezione e una dieta drastica (probabilmente aiutata da sostanze proibite), rientrò in Nazionale per i Mondiali ’94 in Usa segnando alla Grecia, urlò con il viso stravolto tutta la sua rabbia davanti alla telecamera.

Il gol di mano all’Inghilterra

Ma non si accontentò: al termine della partita attaccò duramente la Fifa colpevole di far giocare le partite ad orari impossibili e con un caldo asfissiante solo per esigenze televisive. Così firmò la sua condanna: al match seguente, controllo antidoping e positività all’efedrina. Per lui il calcio giocato finì lì.

“Per dire la verità non mi importa cosa ha fatto Diego con la sua vita, mi importa quello che ha fatto con la mia”, disse lo scrittore Argentino Roberto Fontanarrosa, detto il “Negro”. “Non voglio essere un modello per nessuno – aggiungeva el Diez -. Voglio solo essere me stesso”. E’ impresa impossibile dividere il Maradona calciatore dal Diego uomo. Non ne vale nemmeno la pena: forse proprio per queste quelle sue debolezze (gravi, ma sempre sincere, anzi per certi versi ingenue) è stato amato e idolatrato. “Ho vinto per l’Argentina, ho vinto per Napoli, ma soprattutto ho vinto per quelli che di solito perdono”: è bello ricordarlo così.

Buona domenica.

Ps. Chissà che cosa avrebbe scritto in questa circostanza Gianni Mura, altro cantore ineguagliabile delle più belle storie di sport… Ma anche lui è stato portato via in questo dannato anno che non finisce mai.

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