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Non spostate le opere dal loro habitat

di | 2020-08-09T06:42:17+02:00 9-8-2020 6:35|Arte, Sezione 8|0 Commenti

ENNA – Andare in giro per esposizioni e mostre monotematiche è sempre affascinante, un irresistibile richiamo delle sirene per i cultori dell’arte poiché permette un viaggio temporale nello stile di un artista, la possibilità di confronti e nuove letture delle opere altrimenti impensabili. Ma quanta differenza passa nell’ammirare un’opera nella cornice originale a cui è stata destinata. Mi è capitato di visitare diverse mostre su Caravaggio e fra le altre opere in esposizione a Milano mi sono ritrovata ad ammirare la Madonna dei Pellegrini: era lì, ad altezza d’uomo, a portata di sguardo come mai potrai vederla se collocata sul suo altare, i miei occhi che possono fissare il suo sguardo basso rivolto ai due anziani pellegrini in ginocchio. La luce perfetta, la distanza perfetta. Non resta che ammirarla insieme agli altri capolavori.

La Madonna del Pellegrino di Caravaggio

Ma il pensiero non può che correre a Roma, a quel giorno in cui, stanchi e accaldati, con gli occhi colmi di bellezza, l’andammo a cercare nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio proprio lei, Lena, la puttana di Caravaggio che veste i panni della Madonna. Davanti a noi, in quella cappella laterale immersa nel silenzio e nella luce fioca, ad altezza dei nostri sguardi non c’erano gli occhi di Maria ma i piedi sporchi del pellegrino che nella sua miserabilità appare essenzialmente vero, reale, un pellegrino come noi, privo di orpelli, fuori dal tempo. E così davanti a tanta bellezza affiora alle mie labbra una preghiera, un atto di contemplazione che va ben al di là del semplice ammirare un’opera d’arte e faccio fatica a non pensare che possa essere la stessa commozione che nei secoli ha ammantato il cuore di coloro che si sono inginocchiati in silenzio davanti a quell’altare.

Svaniscono le tante letture e ricerche fatte negli anni per lasciare spazio libero alle sensazioni suggerite da quel sentimento profondo che mi avvolge e coinvolge in quella scena che sta avvenendo proprio in quel momento davanti al mio sguardo e sono lì, coprotagonista di quella scena, pellegrina tra i pellegrini coi piedi sporchi e doloranti come il vecchio in preghiera. No. Questa sensazione non può essere provata in un museo o in una mostra, nonostante possano essere tecnicamente perfetti. Affiora così naturale il confronto con un’altra opera del Caravaggio, il Seppellimento di Santa Lucia, opera realizzata nel 1608 quando il Merisi, dopo una rocambolesca fuga dalle prigioni di Malta, giunge a Siracusa trovando ospitalità dall’amico Mario Minniti che gli procura questa commissione. La grande tela (cm 408×300) è destinata da subito alla Basilica di Santa Lucia al Sepolcro, divenendo così cornice naturale, continuum dell’opera stessa. La scena dipinta si allontana dall’iconografia tipica in cui viene rappresentato il martirio della Santa ponendo invece l’accento sul momento più quieto e intimo del seppellimento. La tela è posta in verticale, quasi in dissolvimento, toni e sfumature brune, come illuminate da un invisibile fuoco, rendono la scena ancor più drammatica e tragica.

Caravaggio lascia appositamente un grande spazio vuoto in altezza, mostrando la naturale ambientazione del luogo sporca e polverosa: una catacomba o la latomia in cui si racconta fosse stata martirizzata e sepolta Lucia. Il suo corpo, piccolo, fragile ma composto, quasi dormiente se non fosse per quel taglio alla gola pressoché invisibile, è posto proprio davanti allo sguardo dello spettatore che contrito non può che stringersi in contemplazione insieme agli altri personaggi – tra cui lo stesso Caravaggio- che piangono la Santa, storcendo il naso davanti alla naturale freddezza d’azione dei becchini, imponenti e quasi invadenti nell’intimità della scena. E’ gente del popolo quella che geme e piange sul corpo della Santa ed è gente comune quella che ancora oggi prega la propria Santa patrona il cui corpo è conservato a Venezia e che attribuisce quasi valore reliquiario a questa tela. E’ ancora gente comune quella che si mette in cammino per ammirare quest’opera resa fragile e delicata dall’umidità della chiesa in cui è stata esposta per secoli e che ha costretto gli studiosi a spostare la tela in un luogo più sicuro, decretando l’inamovibilità della stessa.

L’Assunta dipinta da Tiziano

Parla così il professor Paolo Giansiracusa, storico e critico d’arte, docente ordinario di storia dell’arte all’Accademia delle Belle Arti di Catania, direttore dei “Quaderni del Mediterraneo”: “L’inamovibilità di un’opera è dettata dall’opera stessa. E’ la sua consistenza strutturale che ce lo dice, sono le sue dimensioni, la sua fragilità, la sua vetustà, la sua ambientazione che ce lo suggeriscono. Chi staccherebbe mai un affresco per portarlo in mostra o chi uscirebbe mai dai Fari, a Venezia, l’Assunta di Tiziano per portarla in esposizione. Struttura e dimensioni suggeriscono al buonsenso cosa si possa fare. Altri dati fondamentali sono l’ambientazione, il valore identitario e anche quello religioso, nel caso delle opere d’arte sacra”.

“E’ emblematico – continua – il caso della Sepoltura di Santa Lucia di Michelangelo da Caravaggio (1608). Non si tratta di una Crocifissione astratta o di una Adorazione generica, ma di una scena di esequie che avviene in un luogo identificabile e con personaggi riconoscibili. Si tratta di una narrazione realistica che non può essere disgiunta dal suo luogo deputato, né avrebbe senso esporla altrove come si fa con una comune opera d’arte. Insomma non siamo davanti ad una scena di narrazione catechistica ma davanti a un’icona, a una sindone, un sudario triste teso a raccontare un efferato martirio di cui la città di Siracusa, commissionando l’opera, ha voluto farsi testimone. Ci sono poi delle opere ambientate nel contesto architettonico e nel luogo urbano che è difficile, molto difficile, immaginare altrove”.

La Vocazione di San Matteo del Caravaggio

“Molte sono in tal senso le opere ambientate del Bernini o del Caravaggio – aggiunge il professor Giansiracusa -. Che senso avrebbe portare altrove la Decollazione di San Giovanni Battista di Malta? O staccare dal suo contesto la Vocazione di San Matteo? Quelle tele, come la Sepoltura di Santa Lucia, sono solo una parte dell’opera. Il resto è costituito dall’altare, dallo spazio architettonico, dalla luce, dalla tradizione religiosa, dal luogo urbano. Per chi organizza mostre con opere ambientate la convinzione è tale se vista nel suo contesto, al di fuori del quale appare come un trofeo di caccia muto, morto, inespressivo. Molte opere sono inamovibili per il valore identitario, si pensi alla Madonna di Trapani o al busto reliquiario di Sant’Agata. Che senso avrebbe portarle fuori dal luogo urbano e territoriale in cui esprimono valori identitari? Lo stesso vale per Santa Lucia (il cui dipinto del Caravaggio misura oltre dodici metri quadri, quanto un vano abitativo) e della fragilità connessa alle stessa. Va aggiunto inoltre che la tendenza contemporanea del campo delle esposizioni storiche esclude la presenza dei manufatti originali e si basa su riproduzioni digitali, spesso di altissimo livello. Ciò non significa che non si debbano fare mostre con le opere originali, però se si può evitare (in particolare per i grandi dipinti) lo stress di lunghi viaggi è meglio”.

Grazie alla cura ed alla lungimiranza di grandi uomini sono nati i musei, luoghi del Sapere per eccellenza, le tante mostre anche a carattere scientifico e multimediale che valorizzano e rendono fruibili le opere ad un vasto pubblico, ma se si può, quando si può, scegliamo di ammirare le opere nella loro collocazione originale: ne trarremo un’emozione più suggestiva e coinvolgente serbandola nei nostri ricordi insieme ai luoghi che la ospitano, ai suoi odori e colori.

Alida Brazzaventre

Nell’immagine di copertina, il Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio

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