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Catalina Lay, una donna contro l’Inquisizione

di | 2025-03-05T19:18:39+01:00 9-3-2025 0:15|Personaggi, Sezione 3|0 Commenti

NUORO – Catalina Lay era una levatrice di Seui del 1500. In lingua sarda era definita una “maista ‘e partu”. Fu arrestata dall’Arcivescovo di Cagliari con l’accusa di essere una strega e successivamente processata a Sassari. In un’assolata mattina di agosto del 1583, precisamente il giorno di Ferragosto, sulla piazza della Carra a Sassari (oggi piazza Tola), nella città in cui dal 1563 aveva sede il tribunale dell’Inquisizione, fu costretta, scalza, ad ascoltare la proclamazione della propria sentenza di condanna.

Non era l’unica donna accusata di stregoneria e condannata pubblicamente, con lei vi erano altre otto donne d’età compresa tra i trenta e i sessant’anni: Joanna Porcu e Clara Dominicon di Sedini, Antonia Orrú di Escolca, Pasca Serra di Villanofranca, Catalina Pira di Tertenia, Sebastiana Porru di Gemussi, Catalina Escofera di Cuglieri.

A seguito di dolorosissime torture, davanti ad un’immensa folla, confessò di essere colpevole di tutti i capi di imputazione. Fu condannata a subire pene umilianti, duecento frustate, e perfino sei anni di carcere. Subì la confisca dei beni e fu costretta a indossare l’abito penitenziale, “il sambenito”, l’indumento atto a rappresentare l’infamia, utilizzato dall’Inquisizione spagnola per umiliare i condannati per reati religiosi. Era un grande scapolare simile a un poncho che consisteva in una tela rettangolare con un foro per la testa che, una volta indossata, arrivava un po’ sotto la cintura del condannato lasciando scoperte le spalle; per completare lVumiliazione, il sambenito veniva indossato con un cappello a punta chiamato “coroza”.

A Seui la tragica vicenda umana della levatrice e il suo triste destino non sono stati dimenticati. Per questo, nel percorso museale del paese, le è stata dedicata una sezione in “S’Omu ‘e Sa Maja”, un edificio della fine del 1600, nel quale fu scoperta una testimonianza di magia bianca e che oggi ospita collezioni relative al mondo magico religioso e alle tradizioni precristiane della Barbagia di Seulo. La popolazione locale, perpetuandone il ricordo, ha fatto un atto di giustizia, affinché non vengano dimenticate lei e tante donne che nel 1500-1600 sono state vittime dell’Inquisizione perché ritenute streghe solo per il loro sapere che mescolava rituali naturali, credenze ancestrali e un antico e misterioso potere femminile.

Catalina Lay pagò a caro prezzo le sue competenze e la sua abilità nell’aiutare le donne durante il travaglio e il parto, così come le conoscenze tramandate nei secoli sull’utilizzo dei medicamenti naturali e sul potere degli antichi “abrebus”, le parole proibite dei riti magici religiosi. All’epoca la mortalità infantile era molto alta, le capacità di Catalina e di tante levatrici erano pertanto rispettate e temute al contempo, quasi potessero avere potere di vita o di morte sul nascituro e spesso sulla neo mamma.

Per questo motivo non era raro che all’epoca le levatrici fossero perseguitate. Bastava un’accusa ingiustificata mossa da chiunque per portare una di queste davanti al giudice inquisitore. Sulla vita di Catalina Lay non si hanno molte notizie. Si sa solo che era una donna di mezza età e aveva dei figli. Durante il processo e la sentenza Catalina confermò di avere legami con gli spiriti sovrannaturali, di praticare incontri con il diavolo durante la notte e di partecipare a riti propiziatori in determinate località del paese. Asserì che il demonio le era apparso con sembianze sia umane che animali, e che in più occasioni si era concessa carnalmente a lui.

Confermò ogni parola del suo atto d’accusa, come il fatto che proprio il diavolo l’aveva spinta ad uccidere i neonati soffocandoli con una barbara usanza, ossia premendo con il pollice sotto il mento, per far credere che i bimbi fossero nati morti. Pur di porre fine alle torture confessò anche di essersi introdotta, a notte fonda, nella stanza dei bambini che aveva soffocato per succhiare loro il sangue da miscelare con altre sostanze. In questo modo avrebbe realizzato pozioni e unguenti per i riti magici. Tra le sue creazioni asseriva di averne creata una che le permetteva, se spalmata nelle mani, nelle piante dei piedi, negli occhi e sotto le ascelle, di cambiare sembianze in modo che, trasformata e resasi irriconoscibile, poteva entrare indisturbata nelle case delle piccole vittime.

Dopo la proclamazione del cosiddetto autodafé (la proclamazione solenne della sentenza dell’inquisitore spagnolo, cui seguiva la cerimonia pubblica dell’abiura o della condanna al rogo dell’eretico), in cui a Sassari fu eseguita la penitenza e decretata la condanna di Catalina, non si ebbero più notizie della donna. Pertanto non si ha certezza se sia riuscita a sopravvivere ai sei anni di carcere, se sia mai più tornata nel suo piccolo paese di Seui dove furono confiscati tutti i suoi beni.

Ai nostri tempi però è possibile far rivivere la sua storia nel percorso museale Sehuensis in “s’ Omu ‘e Sa Maja”, dove alla levatrice è dedicata una sezione in cui è ricostruita e narrata la sua storia. Durante l’Inquisizione la caccia alle superstizioni e ai sacrilegi colpì soprattutto le donne. L’84% delle persone processate in Sardegna per stregoneria fu di sesso femminile e le levatrici furono da subito perseguitate perché, secondo il manuale di demonologia del giudice inquisitore, il “Malleus Maleficarum”, erano ritenute schiave del demonio, sopprimevano feti e neonati immolandoli al diavolo, potevano impedire la procreazione e mettevano a rischio la fertilità delle donne.

Con la loro conoscenza di erbe e rimedi erano capaci di provocare “l’istrumingiu” (l’aborto) o, divenute “accabadoras”, avevano il compito di recidere come le Parche il filo della vita. Sas Accabadoras incarnavano un ruolo ambivalente. Erano viste come figure compassionevoli, che alleviavano le sofferenze dei morenti ponendo loro fine attraverso l’atto di “finire” il loro dolore, ma generavano anche timore, poiché detenevano il potere di decidere quando e come una persona avrebbe concluso il proprio percorso terreno. Questo modo di agire consentiva loro una grande libertà di azione al di fuori della tutela patriarcale e le collocava al di fuori delle case e degli schemi sociali che relegavano le donne dentro le mura domestiche, soggette a padri e mariti, considerate solo come angeli del focolare domestico.

Catalina Lay accorreva quando veniva chiamata. Non è certo se avesse imparato dalla madre il mestiere di levatrice e non sempre questo lavoro era retribuito, ma spesso prevedeva l’omaggio di alimenti di prima necessità o “s’aggiudu torrau”, il reciproco aiuto in caso di bisogno. Non era solo una “maista de partu”, ma anche donna che conosceva diverse pratiche magiche divinatorie. Quelli che la denunciarono la accusarono di operare sortilegi malefici. Le udienze dove ripetutamente Catalina raccontò di spiriti vestiti di verde che la tormentavano, di stupri e sabba orgiastici in onore di un Dio caprone che si svolgevano in un luogo chiamato “Su riu de su suergiu” e di esorcismi, furono tre.

Catalina ripeteva continuamente che il demonio le si era presentato come il signore di nove località che le appariva sotto forma di un uomo molto grande e peloso, di un giovane cavaliere, o con le sembianze di capra, asino o bue. Ogni quindici giorni, di sabato o domenica, avevano rapporti sessuali, e dopo avergli ripetutamente donato il suo corpo, alla fine la donna gli donò anche la sua anima. La donna, come attestato dai documenti conservati, cambiò varie volte versione per poi ammettere tutto quello che l’Inquisizione voleva sentirsi dire.

Le carte processuali la descrissero come una persona amorale, arrivata persino ad uccidere il proprio figlio di nove anni, su richiesta del demonio, facendogli rovesciare addosso una caldaia di lisciva che bolliva sul fuoco. Additata da tutti decise di confessarsi e di riconciliarsi con la Chiesa, ma accusata all’Inquisizione non si salvò dalla pubblica gogna.

Forse fu davvero una donna esperta di magia nera o forse fu solo vittima della sua miseria, della superstizione, dell’ignoranza.

Virginia Mariane

Amante del buon cibo, di un libro, della storia, dell’archeologia, dei viaggi e della musica

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