RIETI – Avviso ai lettori: queste righe non sono del tutto super partes, perché il film “A complete unknown” dedicato ai primi anni della carriera artistica di Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman, nato a Duluth nel 1941), riaccende la fiamma che cova sotto la cenere dei “diversamente giovani” che quegli anni li hanno vissuti, quelli che amavano due Bob: Dylan e Kennedy. Il film è basato sul libro “Dylan Goes Electric!” di Elijah Wald, sugli anni dal 1961 al 1965, ma non aspettatevi una biografia completa, né una descrizione approfondita di un artista che è stato ed è fuori dagli schemi, non ha mai cercato di accattivarsi il pubblico ed è stato più volte contestato: anche dopo il successo, il premio Nobel che non ha ritirato, l’esibizione davanti al Papa, rimane ancora uno “sconosciuto” a 80 anni suonati. L’errore è cercare di etichettarlo e infatti il regista James Mangold non lo fa.
Dylan è Timothée Chalamet, entrato perfettamente nei panni (ingrassato di 10 chili appositamente) ed è lui stesso a cantare, Joan Baez è Monica Barbaro, Elle Fanning è Sylvie Russo, la sua prima ragazza, Edward Norton è Pete Seeger, Boyd Holbrook è Johnny Cash, Scoot McNairy è Woody Guthrie, Norbert Leo Butz è Alan Lomax, Charlie Tahan è Al Kooper. Il giovane Dylan, appena ventenne, arriva in autostop nel New Jersey al Greystone Hospital (dove è ricoverato Woody Guthrie e dove tornerà più volte fino alla sua morte nel 1967), poi approda a New York nel 1961. Negli anni precedenti aveva suonato nel caffè studentesco all’Università del Minnesota, dopo aver seguito un cantante di blues nero, Big Joe Williams.
Nella stanza di ospedale, davanti all’uomo che ha cantato gli emarginati, gli ultimi, gli hobos degli anni Trenta (quelli descritti in “Furore” di Steinbeck, quelli dell’America dopo la crisi del 1929, quelli che salivano clandestini sui treni merci, gli anni in cui anche i bianchi, come i neri, facevano la fame) intona subito “Song to Woody” e il cuore dello spettatore ha un primo sussulto, lo stesso di Pete Seeger accanto al letto e di Guthrie, che sgrana gli occhi, non potendo più parlare (aveva la malattia di Huntington, che provoca alterazioni del comportamento e gravi deficit neurologici): Sono quaggiù all’aperto/mille miglia da casa/cammino per una strada/che altri uomini hanno percorso/vedo un mondo nuovo/di gente e di cose/ascolto poveri e contadini/principi e re…
Woody Guthrie negli anni Quaranta si trasferì a New York al Greenwich Village. Con Pete Seeger, Lee Hays e Millard Lampbell formò gli Almanac Singers, poi con Leadbelly, Sonny Terry e Brownie McGhee formò gli Headline Singers. Suo è l’inno non ufficiale degli Stati Uniti “This Land is Your Land”, che ha dato il titolo alla sua biografia e al film “Bound for glory”. Alan Lomax (che scoprì Leadbeally in carcere) ha raccolto canzoni popolari in tutta l’America, negli archivi, registrazioni sul campo, descrivendo la storia d’America con una ricca documentazione. Johnny Cash, musicista country, ha trasformato le ballate popolari in canzone d’autore e negli anni Sessanta ha continuato a raccontare l’America a muso duro.
Ma torniamo al film. Le canzoni sono tutte sottotitolate, le parole rispecchiano il clima degli anni della guerra in Vietnam, dei missili russi a Cuba, ed ecco “Masters of War” che fa venire il brivido, soprattutto pensando che non è cambiato proprio niente, forse oggi è ancora peggio, perché ci mancano Martin Luther King, Malcom X, John e Bob Kennedy, Nikita Krusciov e la parola del Papa (Giovanni XXIII) era ancora ascoltata: i telegiornali annunciavano la catastrofe imminente, ma i missili non partirono. Venite padroni della guerra/voi che costruite i grossi cannoni/ voi che costruite gli aeroplani di morte/voi che costruite tutte le bombe/voi che vi nascondete dietro i muri/voi che vi nascondete dietro le scrivanie/ voglio solo che sappiate/che posso vedere attraverso le vostre maschere...
Insieme al successo arrivano gli occhiali scuri dietro ai quali si nasconde, i concerti con Joan Baez e al festival folk di Newport nel 1965 la svolta rock: viene fischiato per essere passato alla chitarra elettrica, suonando con un gruppo e Al Cooper. E mentre il pubblico fischia al tradimento dei principi base del folk, Pete Seeger, Alan Lomax e Joan Baez cercano di fermarlo, lui continua imperterrito, intona “Like a rolling stone” e nasce l’album “Highway 61 revisited”: Un tempo vestivi così bene/gettavi una moneta ai pezzenti nella tua primavera/non è vero?/ la gente ti gridava attenta ragazza/ finirai col cadere/ma tu pensavi che ti prendevano in giro/ridevi ti divertiva/la gente che cercava di stare a galla/ora non parli più così forte/ora non sembri più così fiera/ora che devi racimolare/il tuo prossimo pranzo...
Joan Baez gli dedicò anni dopo la canzone “Diamond and Rust” (diamanti e ruggine), che descrive un po’ il suo carattere, lo rimproverò per aver abbandonato la protesta sociale, altri lo hanno accusato di essere diventato un “ricco borghese”, di aver abbandonato la canzone di protesta. Bob Dylan non ha fatto mai parte di nessun movimento e per questo ha potuto fare molte più cose, restando libero. Un film da vedere, da ascoltare, possibilmente con figli e nipoti, che non potranno restare indifferenti. E non alzatevi dalla poltrona fino alla fine dei titoli di coda.
Francesca Sammarco
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