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Proviamo a seguire l’esempio del flaneur

di | 2020-05-29T17:57:11+02:00 31-5-2020 6:05|Attualità, Cultura, Sezione 2|0 Commenti

ROMA – Se abbiamo capito la lezione, ora dovremmo seguire l’esempio del protagonista di “Niebla”: Augusto Perez. Il personaggio, ideato dallo spagnolo Miguel de Unamuno, incarna il modello del flaneur, parola francese intraducibile in italiano ma che grosso modo indica colui che vaga oziosamente, senza fretta, trascorrendo il tempo nell’osservare i particolari della realtà e traendo da essi emozioni. Augusto uscendo di casa, rigorosamente senza meta, al portone si chiede: “E adesso dove vado? A destra o a sinistra?”. E’, la sua, una domanda che non nasce dall’ansia ed è emblematica solo del suo modo di vivere il momento senza dover per forza organizzare la giornata. Per Augusto Perez il mondo è un insieme di eventi piccoli e grandi che lui passa il tempo a vedersi scorrere davanti. La sua vita, che si nutre di questo fluire, è tutta qui. Niente ambizioni, né progetti. Solo un amore senza speranza ma non dobbiamo mica prendere a modello anche questo…

Augusto, che è anche un dandy, è curato nel vestire ma sceglie gli abiti per suo personale piacere, non pensando a come lo vedono gli altri. Sì, Augusto Perez è un po’ svampito e certo non è un modello di virtù: benestante e senza bisogno di lavorare, in pratica uno scansafatiche. Nella letteratura è annoverato tra i disadattati come Zeno Cosini, Dorian Gray e tutti quelli che vivono con difficoltà nella folla della società moderna. Tuttavia, nel suo essere una nullità, ci dà un segnale importante: esprime cosa è lo stupore, quella bellissima condizione che si perde, inevitabilmente, diventando adulti perché la fretta ci impedisce di badare a ciò che ci circonda. Ora però qualcosa, per noi, è cambiato. La pausa cui ci ha costretto l’emergenza sanitaria, interrompendo lavoro, impegni, disegni futuri, ci ha fatto per un po’ vivere da flaneurs, da camminatori solitari dentro città vuote di cui abbiamo notato punti di osservazione, dettagli, angoli che nella fretta ci erano sfuggiti.

Stavolta, non avendo un posto preciso dove andare né orari da rispettare, abbiamo potuto vedere e godere di tutto perché abbiamo rimesso in funzione qualcosa che avevamo dimenticato di avere: l’attenzione alle piccole cose, quelle capaci di toccarci dentro e di farci vibrare la vita, di procurarci emozioni. All’improvviso, tre mesi fa, catapultati fuori dalla centrifuga del consumismo che ci metteva fretta per essere competitivi e sempre sul pezzo – ma non ci lasciava spazio per osservare né per “ascoltare” noi stessi – ci siamo resi conto che per sentirsi vivi non c’è bisogno che gli altri si accorgano di noi: ci siamo a prescindere da questo. Abbiamo compreso che sì, insomma, esistiamo e non abbiamo bisogno di dimostrarlo a nessuno. Così, di colpo, si è vanificato il motivo per cui correvamo tanto e per cui ci affannavamo ad essere sempre presenti e perfetti. Questa è stata la prova che si può vivere felici anche stando in disparte e in silenzio, gustando il tempo che passa, spiluccandone i particolari come se fossero chicchi d’uva. In sostanza, è stata la conferma che possiamo vivere in una bolla, come sospesi, e questo ci fa stare in equilibrio, posizione invidiabile. E’ proprio quello che intendeva il poeta Orazio quando scrisse il famoso ma forse mal interpretato “Carpe diem”, la cui traduzione è, appunto, “cogli l’attimo” e non “afferra l’occasione”, che un po’ di tensione la mette e anche la paura di non farcela.

Gli antichi questo lo sapevano bene noi, invece, pensavamo di saperlo ma avevamo capito male. Niente di nuovo, insomma, sono secoli che si scrive e si discute a proposito di questo modo salutare di annoiarci per vivere in modo autentico ma negli ultimi decenni ci abbiamo girato intorno, a questa verità, e l’abbiamo distorta, fraintesa. Da sempre si sa che vivere di fretta significa “stress”, quando non di peggio. Il problema è che pensavamo di farlo ma non era così. E poi quella solitudine e quella distanza che, sapendole valorizzare, possono diventare sapiente discrezione, trattiamole con cura: sono le virtù necessarie per riqualificare la nostra società fatua, interessata solo all’esteriorità ma incapace di guardarsi dentro. Nella lentezza, quindi, è la formula per non commettere più l’errore di farsi annullare nella folla, dove l’individuo rischia di diventare un numero, di omologarsi e di perdere la propria originalità. Ora sappiamo come essere unici: vivendo una vita interamente nostra in connessione con la natura. Tutto il resto è artificiale.

Umberto Galimberti, filosofo e sociologo, nei momenti più duri della pandemia, ha fatto molte riflessioni legate all’indole umana e ha lanciato un messaggio, un allarme quasi. “Non basta distrarsi, nella vita – ha spiegato in una intervista a Vanity Fair – bisogna anche interiorizzare e guardare se stessi. Finora siamo scappati lontano, come se noi fossimo il nostro peggior nemico”. E invita, Galimberti, a non dimenticare l’esperienza che abbiamo vissuto in questa seppur tragica circostanza. Cercavamo lontano, infatti, come il protagonista de “Il racconto dell’isola sconosciuta” di Josè Saramago che pensava di trovare in un posto remoto, chissà dove, la felicità. Invece questa, a guardar bene, si trova vicino: proprio dentro di noi. Quindi, passeggiamo con una tartaruga al guinzaglio, seguendo l’esempio del flaneur, e godiamoci ora il nostro tempo senza fare progetti: non è una gara e non c’è un premio a chi arriva prima alla fine della vita. Se la nostra sarà migliore ne trarrà beneficio anche quella degli altri.

Gloria Zarletti

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