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Perché non parlate in italiano?

di | 2020-05-01T19:20:16+02:00 3-5-2020 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

PERUGIA – Nonostante la Gran Bretagna sia uscita dall’Europa, l’Italia continua ad essere inondata, meglio ancora, soffocata, dagli anglicismi. La pandemia – approdata da noi, pare, via Germania e via Cina – ha scaricato nelle nostre lande non soltanto un morbo ad alta diffusività e troppo spesso letale, ma persino un altro carico di ulteriori vocaboli inglesi, di cui, in tutta sincerità, non avevamo alcun bisogno. Tra gli altri emergono dai titoli e dai testi delle ultime settimane “lockdown”, “smart working”, “droplet”. Non esistono lemmi corrispettivi in lingua italiana? Certo che sì! Nell’ordine: confinamento (o segregazione), lavoro-agile, goccioline. Tuttavia le mode anche linguistiche, che siano eleganti o volgari, recano con sé un’alta dose di infettività e tutti, o quasi, si accodano senza alcuno spunto critico e cinguettano giulivi infarcendo i loro interventi, i loro scritti, i loro discorsi di parole straniere. Questi singolari pappagalli ciarlieri non si rendono conto, tuttavia, che così parlando e scrivendo, contribuiscono ad infliggere ulteriori colpi esiziali alla lingua madre, che tra l’altro non se la passa benissimo. Collaborano, colposamente ignari, col “nemico”.

In uno dei racconti de “Le rose di Atacama” di Luis Sepulveda, l’anziano professor Galvez, di cui non rammento il nome, esule cileno in Germania, raggiunge la Spagna con lo scrittore, suo connazionale e si siede al tavolo di un caffé di Gijon, nelle Asturie. All’improvviso, mentre tutto intorno gli avventori parlano tra di loro ad alta voce, scoppia a piangere. Il romanziere si preoccupa: gli chiede se si senta male, cosa accusi, quali fastidi avverta… E lui risponde, scrollando la testa, che le sue non sono lacrime di dolore, ma di gioia: “Non ti rendi conto? Siamo tornati in patria. La nostra lingua è la nostra patria”. Frase illuminante. Da mandare a mente. E di cui prendere atto, agendo di conseguenza. Certo ogni lingua muta pian piano e si arricchisce di neologismi, talvolta pescati da altre comunità nazionali. Lo stesso italiano è frutto di termini etruschi, latini, longobardi, arabi, francesi, inglesi… L’Accademia della Crusca, ogni anno, sdogana alcune decine di parole nuove, nate dall’uso comune o mutuate da altri paesi. Ma, per dirla con i nostri antichi avi, queste innovazioni vengono filtrate, maturate, accolte “cum grano salis”. Non alla carlona, lasciando passare tutto, brodo e acini.

I politici frequentatori ossessivi del piccolo schermo, i parlamentari che blaterano “prima gli italiani” e tutti quelli che ritengono di indorare i loro vuoti discorsi spargendo qua e là espressioni esotiche, i partecipanti ai salotti televisivi e radiofonici pubblici e privati, i giornalisti dei quotidiani, nazionali o locali che siano, invece di riempire bocca e articoli di lemmi stranieri, compiano un piccolo sforzo mentale per trovare ed utilizzare i corrispondenti termini nostrani. Chi non ci riesce di suo, acquisti un dizionario. Quando all’estero qualcuno addita, a torto e con assurde generalizzazioni l’Italia, come “terra di mafia e maccheroni“, giustamente gli italiani insorgono subito e replicano, patriottici e sdegnati, ricordando agli smemorati denigratori la grandezza del nostro paese, la sua cultura, la sua storia, la sua arte, i suoi letterati, i suoi musicisti, poeti, navigatori, santi, scienziati e quant’altro.

Dopo la sacrosanta sfuriata, però, molti finiscono per scivolare sulla buccia di banana della nostra lingua, spesso dimenticata, tartassata, seviziata non solo nelle più elementari regole grammaticali e sintattiche, ma persino volgarmente tradita col ricorso smodato a termini forestieri, inglesi, soprattutto, quando il nostro vocabolario porta il vanto di essere tra i più ricchi di sfumature linguistiche (quasi 200.000 parole, o giù di lì). Proseguendo di questo passo l’italiano continuerà a perdere terreno a livello internazionale e fra pochi lustri si trasformerà definitivamente decadendo nella categoria di un modesto dialetto. Peggio: in un vernacolo. Non solo per colpa del basso numero di abitanti (aspetto che pesa), delle economie più forti (che incidono), del mondo che cambia (ineluttabilmente), ma, in aggiunta, pure per l’insipienza e l’ignoranza di un buon numero di connazionali. Perché una lingua più è pura ed originale, tanto più è desiderabile ed amata. Fuori dai denti, vi prego: basta con questo profluvio di parole lontane dal nostro idioma (“… del bel paese là dove il sì suona”, cantava già Dante Alighieri, al tempo in cui l’Italia altro non era che un concetto astratto), parlate e scrivere in italiano, c…o. Ops, cribbio!

Elio Clero Bertoldi

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