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Nel saio di Francesco pezzi del mantello del vescovo

di | 2019-06-13T17:56:56+02:00 16-6-2019 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

ASSISI (Perugia) – La restauratrice Maria Giorgi di Siena si dice sicura – sulla scorta di una serie di studi e di accertamenti scientifici svolti – che Francesco, sul proprio saio penitenziale, recuperato una decina di anni fa nel proto monastero delle clarisse di Santa Chiara, avesse cucito pezzi del mantello del vescovo Guido. La ricercatrice, che ha effettuato le comparazioni, parla di “compatibilità delle fibre”. Non ci sarebbe, comunque, da meravigliarsi che il Poverello (1182-1226) avesse attuato un simile comportamento. Anzi confermerebbe il suo pensiero, la sua convinzione e il suo modo di comportarsi. In particolare nell’obbedienza, piena e incondizionata, all’autorità ecclesiastica.

Aver rattoppato il proprio umile saio, spesso rammendato persino con foglie e fibre vegetali, con un pezzo del pallium vescovile, suonerebbe, in realtà, come un messaggio, un insegnamento ai propri confratelli su come – contrariamente ai movimenti pauperistici del tempo (Catari, Patari, Gioachimiti ed altri), spesso se non sempre, in odore di eresia e comunque critici e contrari alla madre Chiesa – si dovesse mantenere il massimo rispetto nei confronti della gerarchia cattolica (sacerdoti, vescovi, cardinali, pontefici).

Battezzato in San Rufino col nome di Giovanni dalla madre, Madonna Pica, provenzale, poi cambiato dal padre Pietro Bernardone, in Francesco, il giovane viveva nella casa (con negozio di stoffe pregiate a piano terra) dei suoi genitori in pieno centro ad Assisi – allora territorio del ducato di Assisi – ed era stato avviato con il fratello Angelo, all’attività commerciale. I primi rudimenti scolastici li aveva ricevuti dai preti della parrocchia di San Giorgio, dove aveva imparato a scrivere e a leggere anche in francese e latino (sebbene firmasse i documenti solo con una croce). Ma Francesco, in verità, preferiva ai libri ed al banco del fondaco di famiglia la vita spensierata e futile della ricca gioventù assisana: brigate allegre, suoni, canti, balli, feste. Piccolo di statura, magro, capelli castani, ma pieno di ardore e assetato di vita, primeggiava nel viver “cortese” propagato dai trovatori provenzali.

A vent’anni aveva partecipato alla battaglia di Collestrada contro Perugia (guelfa), finita con la bruciante sconfitta di Assisi (ghibellina) e con la dura prigionia scontata nella Loggia dei Lanari del capoluogo umbro (attuale piazza Matteotti). I suoi pagarono il cospicuo riscatto e, dopo un anno, Francesco tornò libero. Pare che i primi segni della sua conversione si siano registrati proprio durante la detenzione. Tanto che rientrato nella sua città, poco dopo partì per partecipare alla crociata in Terrasanta, indetta da papa Onorio III, al comando del conte Gualtieri di Brienne. Coprì, tuttavia, con tanto di cavallo completamente bardato e con indosso una elegante armatura, solo una trentina di chilometri. Arrivato, infatti a Spoleto, si ammalò e fu curato nella chiesa di San Sabino, lungo la Flaminia. Qui avrebbe avuto un sogno, in cui gli sarebbe stato chiesto se fosse più utile seguire il servo o il padrone. Si convinse, allora, che avrebbe dovuto affidarsi completamente e indissolubilmente al padrone: a Dio, insomma.

Fu in questo periodo, in Assisi, a Foligno e a Roma, che cominciò a regalare ai poveri i proventi del commercio di stoffe e, addirittura, ad abbracciare e a baciare un lebbroso. Nel 1205, in San Damiano, confidò di aver sentito una voce divina uscire dal Crocifisso che gli ordinava “Va’ e ripara la mia casa in rovina”. La Chiesa, per esser chiari. La sua nuova vita gli metterà contro la famiglia e il popolino che lo irriderà etichettandolo come “pazzo”. Denunciato dal padre ai Consoli della città per le donazioni ai poveri, Francesco si appellò al vescovo Guido (cioè l’autorità religiosa) e alla fine del processo – gennaio del 2006 – dopo essersi completamente spogliato, per sottolineare il distacco dal padre e dalla famiglia, indossò il primo cencioso, saio penitenziale e si recò a Gubbio per curare i lebbrosi, emarginati da tutti, con l’aiuto di un suo amico, Federico, rampollo della nobile e ricca famiglia eugubina degli Spadalonga, con il quale aveva diviso la prigionia a Perugia.

Il suo esempio e la sua predicazione – la vita povera, affidata del tutto alla provvidenza divina; la letizia nei momenti di sconforto e di dolore; l’amore per la natura e per gli essere viventi (ricordate il lupo di Gubbio ammansito e la predica agli uccelli di Piandarca di Cannara?), gli portarono in regalo i primi compagni: Bernardo di Quintavalle, suo amico di gioventù, il canonico Piero Cattani, Filippo Longo di Atri, il prete Silvestro, Angelo Tancredi, l’operaio Egidio, Leone, Masseo, Ginepro, Elia… Il gruppo si installò in capanne (il tugurio di Rivotorto) e poi a Santa Maria degli Angeli, ai piedi di Assisi, in un terreno concesso da un abate. Da qui si levò, probabilmente, il Cantico di Frate Sole, e da qui il fraticello mosse alla conquista delle anime, con la parola, le opere, l’esempio. L’anno successivo, 1210, Francesco, a Roma, con i suoi 12 compagni, ottenne da Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni) l’approvazione, sia pure soltanto verbale, dell’Ordo Fratum Minorum, che salutavano chiunque incontrassero con le parole “Pace e bene”.

Ancora un vescovo, Villano di Gubbio, diede ospitalità alla comunità francescana che si era presa cura dei lebbrosi. La predicazione di Francesco continuava a conquistare adepti e a lui si affiancarono anche le donne, prima di tutte la nobile Chiara Scifi, di Assisi (poi Santa Chiara). Il francescanesimo si allargava, in modo irresistibile, dall’Italia alla Germania, alla Francia, alla Spagna ed in tutta Europa. Un “boom” incredibile. Francesco manteneva i suoi confratelli, pur abbracciando “Madonna Povertà” (non dovevano chiedere denaro ma solo cibo, magari in cambio di lavoro), nel solco della tradizione e della gerarchia cattolica. Lo dimostra una sua ulteriore decisione: quella di chiedere al cardinale Pelagio Galvani, che rispose positivamente, di potersi imbarcare (come avvenne nel 1219) ad Ancona per portare la parola di Dio in Egitto a Damietta – nel corso della V Crociata – al Sultano Melik al Kamel. Quest’ultimo, lo ricordano anche fonti arabe, ricevette Francesco (e frate Illuminato suo compagno), lo ascoltò con affabilità e con cortesia. Non si convertì, chiaramente, ma rimandò il fraticello libero, con un salvacondotto per visitare la Palestina (i luoghi di Gesù) e carico di doni (in Marocco, invece, i suoi fraticelli, tra cui Bernardo, furono tutti uccisi e martirizzati).

Morto Piero Cattanei, per qualche mese ministro generale dell’ordine, il capitolo delle Stuoie (1221), nominò Elia al delicato compito (Francesco non coltivava interessi di organizzazione del movimento e non amava neppure la cultura ed i libri). Onorio III, il 29 novembre 1223, approvò la “regola secunda” con il breve “Solet annuere”. Mentre Francesco, già sofferente agli occhi e al fegato, continuava a muoversi tra l’eremo delle Carceri, il Reatino (a Greccio inventò il primo presepe), l’Isola Maggiore del Trasimeno, La Verna (dove ricevette le dolorose Stimmati), Nocera Umbra e la Porziuncola, dove si spense il 3 ottobre 1226.

Prima di morire, dettò il Testamento e mandò un messaggero a chiedere alla nobildonna romana Jacopa de’ Settesoli (schiatta dei Frangipane di Roma), che aiutava i fraticelli in ogni modo, di recarsi alla Porziuncola, in tutta fretta, perché stava morendo e di portargli quei dolcetti (i mostaccioli) che lei spesso gli aveva fatto assaggiare quando lo ospitava nei suoi viaggi a Roma. Una richiesta profondamente umana di un uomo grandissimo, che aveva vissuto, dopo il periodo della spensierata giovinezza, una vita di profonda, assoluta penitenza e di enormi sacrifici di ogni tipo per imitare, quanto più possibile, Gesù Cristo.

Elio Clero Bertoldi

Nella foto di copertina, Francesco d’Assisi parla con gli animali

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