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Nel 1943 fuga di massa dalle Casermette di Colfiorito

di | 2020-08-27T20:19:13+02:00 30-8-2020 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

COLFIORITO (Perugia) – Una fuga di massa, davvero incredibile. Da girarci un film. Il 22 settembre 1943, dal campo di concentramento “numero 64” di Colfiorito (un secondo, ma di minore ricettività, si trovava a Pissignano, proprio sopra le Fonti del Clitunno), noto come Le Casermette, evasero, in piena notte, oltre 1200 detenuti. I quali avevano stipulato un vero e proprio accordo – erano trascorsi pochi giorni dalla firma della resa con gli anglo-americani a Cassibile e la situazione si presentava piuttosto caotica – con le poche guardie: gli internati sarebbero fuggiti, dopo aver tagliato il reticolato senza usare violenza alcuna alle guardie, i militari avrebbero sparato in aria, giusto per fornire un alibi alle autorità superiori, perché la burocrazia ha le sue regole e resta sempre sovrana. Dei detenuti soltanto in trecento preferirono restare prigionieri nel campo. I milleduecento evasi, quasi tutti slavi (ma soprattutto montenegrini) sciamarono via a nord e al sud della catena appenninica, ma anche sui suoi contrafforti, come i monti Martani ed il Subasio, trasformandosi, per certi versi, in una sorta di colonna vertebrale della Resistenza in Umbria.

La storia delle Casermette, sullo splendido altipiano di Colfiorito, comincia nel 1882 quando il Genio sceglie questa località montana per installare un poligono per l’artiglieria. La trasformazione della struttura militare, molto spartana, in campo di concentramento prende il via, dopo lo Leggi Speciali del 1926, ma si concretizza alla fine degli anni Trenta del Novecento. Il regime fascista punisce la dissidenza al Protettorato di Albania trascinando sull’Altopiano (820 metri sul livello del mare, con inverni particolarmente nevosi) una ventina di personaggi “scomodi”. Gli studiosi ricordano che tra questi detenuti fossero presenti un professore di filosofia, un maestro, un albanese vestito in abiti tradizionali del suo paese, tutti intellettuali, solo la minima parte comunisti. Alcuni di loro venivano addirittura ospitati dagli abitanti del paese, perché nelle Casermette non esisteva impianto di riscaldamento. Ancora oggi a Colfiorito, famosa per la pastorizia ed i latticini (oltre che per la palude, un’oasi ricca di fauna e di flora, per le patate rosse ed i salumi), ricordano con riconoscenza: “Lo yogurt non sapevamo neanche cosa fosse. A produrlo ed a consumarlo ce lo hanno insegnato gli albanesi…”.

Agli inizi degli anni Quaranta, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la dissidenza cresce anche all’interno del nostro paese. E così il campo 64, che rientra tra i dodici di internamento civile, rafforzato e in parte ristrutturato, ospita i “politici italiani pericolosi”: tra i 115 ed i 176 antifascisti, tra i quali spiccano le figure di Lelio Basso e Carlo Renegoni, oltre a numerosi sindacalisti di Torino e Genova. Nel 1942 la “popolazione” della struttura muta di nuovo. La guerra, che secondo Hitler e Mussolini, avrebbe dovuto consumarsi in un “lampo” e con la vittoria, continua e così vengono costruite altre sette casermette in legno per un centinaio di militari prigionieri, inglesi e sud africani. L’occupazione militare del Montenegro effettuata dall’Asse nel gennaio del 1943, provoca una nuova destinazione d’uso di Colfiorito: quassù vengono dirottati i civili montenegrini, gli sloveni, persino i cetnici (che erano stati alleati e collaboratori dei nazifascisti). Con comprensibili momenti di altissima tensione tra gli internati, di opposte visioni politiche.

La clamorosa fuga di massa del 22 settembre 1943 rappresenta l’avvio della lenta agonia del campo di concentramento, che nel dopoguerra rimane abbandonato e, successivamente, trasformato in strutture di ristorazione per i numerosi turisti che salgono quassù, al confine tra l’Umbria e le Marche, per godersi l’aria fina, la gastronomia, il parco, persino il museo della civiltà Plestina, tutti richiami che valgono più di una visita. Ospiti ignari di quanta sofferenza, dolore, morte abbiano frequentato questa zona agreste, isolata, ora placida, tranquilla, serena.

Elio Clero Bertoldi

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