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Luna e formaggio: capirsi nel mondo borderline

di | 2019-03-08T13:56:18+01:00 10-3-2019 6:25|Cultura, Sezione 6|0 Commenti

PALERMO – Che c’azzecca la luna col formaggio? Non si tratta dell’ultima mirabolante scoperta di una navicella spaziale inviata sul nostro satellite, ma di un possibile collegamento che farebbe un bimbetto o una persona borderline. Da qui il titolo La luna è fatta di formaggio (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2014, €15)  – del testo scritto a quattro mani dallo psicoterapeuta Giovanni Salonia (nella foto a destra) insieme alle colleghe Gabriella Gionfriddo, Andreana Amata e Valeria Conte: un saggio diretto innanzitutto agli addetti ai lavori – medici, neuropsichiatri in particolare, psicologi, psicoterapeuti – ai quali viene proposto un modello terapeutico per capire e curare i pazienti con linguaggio borderline, modello che si colloca nell’orizzonte teorico della Gestalt Therapy.

Il prof. Salonia infatti, sulle orme del maestro Isadore From, sottolinea che il linguaggio dei pazienti borderline va in primo luogo “tradotto”. Etimologicamente ‘tradurre’ significa ‘condurre’, ‘portare altrove’: “Nella clinica gestaltica ‘tradurre’ significa attraversare la comunicazione del paziente con linguaggio borderline per individuare, dentro la sua grammatica e il suo linguaggio, l’esperienza che vive. Nel percorso terapeutico diventa fondamentale individuare l’esperienza relazionale del paziente con linguaggio borderline e favorire il transito dal suo linguaggio idiografico a quello condiviso”. Quindi, “tradurre significa dare dignità di linguaggio alle affermazioni del paziente”. Ecco allora trovato il nesso tra luna e formaggio: “Un criterio associativo differente da quello della semantica usualmente condivisa: se ambedue sono gialli ne deriva che sono connessi ed interscambiabili.

Leggere La luna è fatta di formaggio è comunque illuminante anche per una platea più vasta di lettori: genitori curiosi, docenti vogliosi di approfondimento, e, in generale, per chi si pone oggi alla ricerca di senso della condizione umana, nell’odierno difficile transito della postmodernità.  Cosa si porta a casa il lettore comune, dalle pagine di questo saggio intrigante? Innanzitutto la consapevolezza che “l’emergere e il diffondersi di una sofferenza psichica sono intimamente connessi al contesto socio-culturale”. E che dalla società narcisistica, a suo tempo così ben delineata da Christopher Lasch, stiamo passando ad una società borderline. Infatti, “dall’emergere prepotente della soggettività e del culto dell’immagine, si sta approdando ad una società nella quale le individualità diventano sempre più sottolineate, i linguaggi sempre più idiografici, la logica sempre meno condivisa”. “Se nella società narcisistica la contrapposizione era tra soggettività ed alterità, tra due grammatiche, nella società borderline siamo di fronte al crollo della soggettività e della grammatica”. In secondo luogo, l’importanza della comunicazione umana, micidiale arma a doppio taglio: “Le due coordinate dell’esperienza borderline – un linguaggio che sembra strano ma è straniero e gli imbrogli consapevoli o no, ma comunque presenti nelle relazioni – si ritrovano con sfumature e registri differenti in tutte le relazioni umane”. In terzo luogo, la chiarezza che la comprensione dell’altro è sempre un problema di ‘traduzione’: il lavoro clinico gestaltico con i pazienti con linguaggio borderline si basa sulla certezza che le loro parole e loro comportamenti, per quanto possano sembrare confusi, strani, accusatori, contengono sempre un’interna coerenza”.

Se poi il lettore è genitore o nonno, insegnante o educatore capisce quanto sia importante aiutare il bambino a dare il nome giusto alle emozioni che vive o che vede nel corpo dell’altro: “Avere nomi sbagliati per denominare i propri vissuti non solo crea confusione a livello cognitivo e narrativo, ma danneggia anche altri livelli del mondo esperienziale-relazionale”. “Se un bambino ha appreso erroneamente  a definire ‘triste’ un volto che invece esprime disgusto, ciò darà adito ad equivoci, a relazioni confuse e conflittuali”. Infatti, “le parole che il bambino apprende non solo accrescono le sue informazioni, ma preparano anche la mente a mettere in ordine il mondo”. Ecco quindi la necessità per ogni bambino “di essere compreso lì dove egli non riesce a comprendere, di essere aiutato a dare un significato, un nome alle proprie e alle altrui esperienze”.  Il testo propone poi riflessioni cruciali anche in ambito sociologico e persino politico, quando afferma ad esempio che “la convivenza è possibile se il confronto delle diversità non avviene sull’asse ‘ragione o torto’, ‘sanità o follia’, bensì su quello della traduzione”. E che “la democrazia evita la deriva della frammentazione non con ritorni nostalgici ad autorità indiscutibili né col ricorso ad autorevolezze fragili, bensì affrontando il compito di riscrivere le regole della dia-logica, partendo dallo specifico di ogni linguaggio, tradotto e condiviso”.

Infine, anche se diretto in primis ai terapeuti, l’auspicio del prof. Salonia “di istituire uno spazio di intesa condiviso in quella terra di nessuno in cui ogni traduttore si avventura per dare sfondo e consistenza ai frammenti di verità del linguaggio ‘divergente’ dell’altro”, è valido e salvifico in ogni contesto. Nella speranza che, anche nella società odierna, liquida e tendenzialmente borderline, si tracci una strada che porti dal caos della torre di Babele all’Eden della condivisione comunicativa.

                       Maria D’Asaro

 

Già docente e psicopedagogista, dal 2020 giornalista pubblicista. Cura il blog: Mari da solcare
https://maridasolcare.blogspot.com. Ha scritto il libro ‘Una sedia nell’aldilà’ (Diogene Multimedia, Bologna, 2023)

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