Nata a New York nel 1943, Louise Glück da anni vive a Cambridge ed è considerata una delle poetesse più importanti della letteratura contemporanea americana, tanto da aver vinto il Pulitzer nel 1993 e il National Book Award nel 2014. Settantasette anni, docente a Yale, da anni è considerata una delle protagoniste della letteratura statunitense, ma in Italia è rimasta sostanzialmente ignorata se non fosse per due piccole case editrici che hanno pubblicato due capolavori tradotti da Massimo Bacigalupo: “Averno” per la libreria e casa editrice napoletana Dante & Descartes e “L’iris selvatico” in cui l’autrice immagina che i fiori parlino a un giardiniere, pubblicata da Giano nel 2003.

I giurati di Stoccolma hanno ricordato come “l’infanzia, la vita famigliare e le relazioni con genitori e fratelli siano una tema che rimane centrale nel suo lavoro”, e su questi temi insiste anche la poetessa Elisa Biagini, che ne ha tradotto alcuni versi in un’antologia da lei curata e intitolata “Nuovi poeti americani” (Einaudi, 2006). Di lei dice: “Ha una lingua precisa e di forte impatto emotivo e usa spesso il contesto familiare come una lente per osservare il mondo”. Riservata, poco favorevole alle apparizioni in pubblico, solitaria, la poetessa Louise Gluck porta nei suoi scritti le tracce di traumi personali legati alla morte, al rifiuto, al fallimento delle relazioni interpersonali. Soprattutto nei suoi versi traspare il dolore scaturito dall’esperienza dell’anoressia vissuta in prima persona da adolescente come forma di ribellione verso i propri genitori. Una esperienza che ha segnato la sua vita tanto da allontanarla dagli studi universitari intrapresi in gioventù per dedicarsi ad un lungo percorso di psicoanalisi. “Un percorso molto approfondito, coerente e spietato e, insieme, una voce così lucida e diretta da creare con le proprie domande quasi disagio”, commenta la Biagini.

Anders Olsson, presidente del comitato per il Nobel, rispondendo ad alcune domande dei giornalisti presenti durante l’annuncio della premiazione ha ricordato “l’intelligenza austera ma anche giocosa” dell’autrice e il suo “raffinato senso compositivo”. Gluck, infatti, usa raramente la rima nei suoi versi, scegliendo invece quello che tecnicamente si definisce l’enjambment, ovvero una pausa ritmica, continuazione di una frase al verso successivo, annullando la classica pausa di fine verso.

Ecco, tra le tante, la poesia Crocevia in cui la poetessa dialoga col proprio corpo come se fosse un qualcosa al di fuori di se stessa con cui cominciare a far pace. Quel corpo che sicuramente è stato il suo tormento durante tutto il periodo dell’anoressia, corpo in cui lei non si riconosceva, tanto da farle desiderare di liberarsene come un vestito che non le apparteneva. E continua chiedendogli perdono per la brutalità della sua anima che dovrà separarsi dal corpo. E ciò che le mancherà non sarà la terra, ma proprio quel corpo con cui ha “bisticciato” per tanto tempo: