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Le tradizioni popolari, baluardo di civiltà

di | 2021-04-02T19:39:38+02:00 4-4-2021 6:35|Attualità, Cultura, Sezione 8|0 Commenti

PESCOROCCHIANO (Rieti)  – Fin dalle origini, l’uomo ha lasciato testimonianze di sé: pitture rupestri, megaliti, mura poligonali, forme arcaiche di scrittura e lo fa ancora oggi, purtroppo anche dove non dovrebbe (monumenti storici, arredi urbani) per non dire del web che, come diceva Umberto Eco. “ha dato diritto di parola agli imbecilli”. I motori di ricerca, intanto, conservano tutto. Difficile il diritto all’oblio nel web. Ma il web può essere utile, anche se non possiamo definirlo un modo per socializzare e guai anche solo a pensarlo. La pandemia ci sta togliendo la socializzazione e l’uomo è un animale sociale, frutto di abbracci, relazioni in cui ognuno porta con sé tradizioni secolari e più queste sono diverse, più si impara e ci si arricchisce. La cultura la fa l’uomo quando si annusa, si abbraccia, discute, quando ascolta gli anziani, che sono le nostre biblioteche viventi. La pandemia ha colpito soprattutto loro e abbiamo perso tanto.

Non solo cinema e teatro, ci sono mancate le feste patronali, le tradizioni della Pasquarella, del Natale, il carnevale, le sagre. Ci sarà molto da recuperare appena saremo nuovamente liberi e le associazioni culturali e folkloristiche avranno un ruolo importante. Per questo oggi è proprio di tradizioni e folklore che vogliamo parlare, perché fa parte di noi e per fortuna c’è chi studia, raccoglie, conserva, come la Federazione italiana tradizioni popolari (Fitp), che organizza manifestazioni e concorsi, pubblica ricerche e notizie e ha una rivista bimestrale “Il Folklore e l’Italia”, consultabile nel sito  fitp.org. Il primo numero di quest’anno riporta una ricerca di Salvatore Luciano Bonventre, presidente dell’associazione culturale La Compagnia degli Zanni, scrittore e ricercatore di Pescorocchiano, piccolo paese di cui è anche consigliere comunale.

Bonventre studia gli antichi catasti, archivi storici, registra testimonianze orali sui balli tradizionali, costumi, ricette, feste patronali, scrive favole e ne raccoglie, focalizzandosi soprattutto sul suo territorio, il Cicolano. Nel sito della Federazione è possibile leggere molte sue ricerche, l’ultima è sulle tiritere infantili, come Ricu Ricu Ianni, che disegna un ambiente in perenne trasformazione e soggetto a continua caducità, suggerendo al contempo come mezzi vincenti di adattamento e sopravvivenza per un’economia domestica e circolare ante litteram, il lavoro incessante e il riciclo sapiente. La filastrocca è ancora viva nella tradizione orale attuale, la sua funzionalità folklorica è assicurata da un movente di ordine pratico, l’educazione dei bambini in famiglia: “Iemonne a San Giovanni /Che ci portemo? Na soma e lena/A chi la carechemo? Alla callina cioppa/Chi l’ha accioppata? U trae ella casa /Doello quissu trae? / L’emo missu allu focu / Doellu quissu focu?/L’ha rammorto l’acqua / Doella quess’acqua? / Se l’ha beuta a crapa / Doella quessa crapa?/L’emo scortecata / Doella quessa pelle?/Ci emo fatte le ciaramelle/Leru, Leru, leru / paga a robba e meno pensiero”.

“E’ un testo finora inedito con modalità di composizione cumulativa raccolta nel territorio di Pescorocchiano, pronunciata ritmicamente da adulti mentre dondolano bimbi sulle proprie ginocchia tenendoli con entrambe le mani – scrive Bonventre -. Ricorda in parte la filastrocca ‘Trucci, trucci cavallucci’ raccolta a Roma da Gigi Zanazzo ai primi del Novecento e negli ultimi anni da Mario Polia a Leonessa, sempre nel reatino. Ma il più celebre esempio di analogia è senz’altro Chad Gadya, la canzone pasquale ebraica del ‘caprettino’ di cui parla lo studioso finlandese di estetica Yrjo Hirn, nel libro ‘I giuochi dei bimbi’, che uscì alle stampe nel 1609 a Venezia e dalla quale il cantautore italiano Angelo Branduardi ha tratto nel 1976 la celeberrima ‘Alla Fiera dell’est’”. Brani che esprimono la grazia popolare, anche senza simbolismi particolari.

Luciano Bonventre

Nell’analizzare il testo, Bonventre sottolinea come questa versione si cali efficacemente nel contesto del Cicolano “fin dall’incipit con San Giovanni, un evidente anche se oscuro rinvio a concezioni magico-religiose ormai abbandonate. Subito dopo però si entra a contatto immediato con la dura realtà quotidiana e la raccomandazione è quella di portare con sé una soma e lena, ossia un carico di legname, fatica indispensabile per potersi riscaldare in una zona di montagna e frutto del taglio dei boschi, una delle principali attività locali esercitata da secoli e fiorente a Pescorocchiano anche oggi. Seguono in rapida successione accenni ad allevamenti avicoli (la callina cioppa) e caprini (se l’ha beuta a crapa), tipici del posto, frammisti ad oggetti strutturali che delimitano in modo netto i confini degli edifici abitativi quali la trave portante del soffitto (u trae ella casa), in alcune varianti sostituito dal palo o dal piede della porta. Un’ulteriore variante indica invece che ad azzoppare la gallina sia stato un semplice spino che c’è entrato e ciò sembra un monito a stare attenti per bambini che un tempo per lo più giravano scalzi nelle campagne”.

Ci sono riferimenti ad attività artigianali (la conciatura), la costruzione di strumenti musicali (le ciaramelle), l’acqua e il fuoco in eterno contrasto, beneficio o minaccia nelle comunità rurali. “La Compagnia degli Zanni dal 2010 ha scelto d’inserire la tiritera nel repertorio del gruppo dei piccoli dai 5 ai 10 anni” sottolinea Bonventre. La maestra Gabriella Aiello (vincitrice del concorso come docente di canto popolare presso il Dipartimento di musiche tradizionali europee ed extraeuropee del Conservatorio P. I. Tchaikovsky di Nocera Terinese – Catanzaro, prima cattedra in questo settore in Italia), ha utilizzato “Ricu Ricu Ianni” in ambito didattico musicale con la tecnica del body percussion, al fine d’implementare la coordinazione motoria e far sperimentare ai bambini elementi come la pulsazione, il ritmo e la metrica delle parole.

E quanta tradizione popolare portiamo sulle nostre tavole durante le feste? Un primo elenco lo riporta l’Arsial (Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione dell’agricoltura nel Lazio), basato sui prodotti agroalimentari tradizionali. Bonventre esaminando la lista sostiene che “emerge un quadro gastronomico riconducibile a cinque categorie: i prodotti derivanti dall’allevamento suino come la corallina romana e il lombetto o lonza; quelli di stampo dolciario come il ciammellone morolano, la caciatella e i recresciuti di Maenza, le ciambelle di magro di Sermoneta, i fiatoni o fiaoni dell’alto Cicolano, la panicella di Sperlonga, le uova stregate di Arpino e Veroli e i quaresimali di Alvito e della Valle di Comino; i biscotti di forma particolare come i cavallucci e le pigne di Palestrina, lu cavalluccio e la puccanella di Amatrice e la tosa di Pasqua con la pupa e gliu campanaru a Supino; i cibi tendenti al salato come i caucioni di patate del Cicolano o la pizza grassa di Leonessa e naturalmente le molteplici forme di torta pasquale che vanno dalla palombella o tortano di Pasqua del Reatino, alla pizza di Pasqua della Tuscia, ai torteni, torteri o tortoli censiti in diversi comuni delle province di Frosinone e di Latina”.

La colazione di Pasqua aveva luogo dopo che il sacerdote aveva benedetto queste cibarie, che hanno un particolare valore simbolico e rituale fortemente collegato alla liturgia cattolica, come la palombella reatina, fatta a forma di nido di colomba con uovo al centro. “Tutte le torte pasquali sono un evidente espressione di quelli che l’antropologo Piero Camporesi definisce ‘pani rituali’- scrive Bonventre – ossia i pani delle grandi occasioni, ottenuti con gli stessi ingredienti del pane ma arricchiti e decorati con sostanze dolcificanti e a volte colorate. I biscotti destinati ai bambini erano per lo più consumati durante la scampagnata fuori porta che a seconda della località si effettua il giorno di Pasquetta o in quello dell’Ottava di Pasqua quando, assumendo forme vicine al gioco e intrecciandosi a volte con usanze di fidanzamento tra coppie, cavallucci e campanari si distribuivano ai maschietti e bamboline chiamate puccanelle o pigne alle bambine”.

La cultura popolare a carattere alimentare legata alla Pasqua è viva e praticata in ambito domestico e se volete approfondire cliccate sul sito della Fitp: un modo per riappropriarci di quello che siamo e da dove veniamo. Ne abbiamo bisogno.

Francesca Sammarco

Nell’immagine di copertina, la cottura delle caciate

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