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Le risate del clown tra ironia e malinconia

di | 2019-12-06T14:33:20+01:00 8-12-2019 6:35|Personaggi, Sezione 8|0 Commenti

VITERBO – “Ridere fa buon sangue”, dice un vecchio proverbio. Ridere fa bene al cuore, la risata è un vero e proprio farmaco, migliora la circolazione del sangue e previene le malattie cardiovascolari… Controindicazioni?Nessuna. La risata è una medicina che va bene per tutti, grandi e piccoli, uomini e donne; una medicina che neutralizza gli effetti dell’ansia e dello stress, il miglioramento dell’autostima e allora benvenuto clown o, se piace di più, benvenuto pagliaccio che lavora in un circo.

Tutte le sere, a metà spettacolo, dopo le tigri e i leoni, il clown entra in pista, mentre viene smontata la gabbia degli animali. Indossa pantaloni larghi larghi, a quadri, un berrettino piccolo piccolo sulla testa pelata e si mette in faccia un grosso naso di plastica rossa. Il suo compito è di  far ridere il pubblico, specialmente i bambini. Il  clown è una brava persona che salta, corre veloce, fa capriole: tutti ridono a crepapelle e lui, contento, fa ancora più salti e capriole…. Il clown è semplicemente colui che riesce a portare gioia pura nei cuori delle persone. inciampa nei suoi stessi piedi, ma allo stesso tempo si dimostra un virtuoso dell’acrobazia; balbetta, dice cose senza senso o non parla del tutto, ma poi si dimostra brillante nel giocare con le parole. Pur essendo adulto, si comporta come un bambino, ricordandoci che anche noi siamo stati bambini e abbiamo dovuto imparare a camminare e a parlare.

Mostra come si possa fallire nei propri piani, ma anche quanto lontano ci si possa spingere attraverso l’esercizio. I clown sono le persone che riescono a cogliere lati della vita inusuali, ironici, invisibili a tanti altri, sono degli artisti con una sensibilità diversa dalla massa, più acuta, più sviluppata, a volte più fragile. Magari sono persone che hanno realmente sofferto, e che invece di cedere al cinismo si buttano sull’ironia. Un’arma spesso usata per sopravvivere al dolore, una scelta che rivela profondità e una grande forza: ci vuole infatti una gran forza per fare questo lavoro. Ci vuole forza per mantenere questo equilibrio fra il dolore che si riceve quotidianamente sotto forma di stimoli laceranti, e la continua analisi pungente e sagace della realtà, da regalare come un prezioso dono al prossimo sotto forma di battuta e tutto questo per donare momenti di vera gioia, per strappare sorrisi perché sanno perfettamente che ogni sorriso è un dono.

Bisogna saper analizzare i principi della “filosofia” del clown per comprenderne il metodo di lavoro in ambito formativo e gli effetti che può ottenere. Il pagliaccio è una maschera molto complessa che porta in sé una storia di migliaia di anni. Già nell’antico Egitto e nell’antica Cina, si trovano figure simili a quella del pagliaccio. Più vicini a noi nel tempo, buffoni e giullari medioevali e, in seguito, le maschere di figura sono da considerarsi gli antenati dei clown moderni. È attraverso i secoli, dunque, che si è consolidata l’arte e la filosofia dei clown ed ancora più difficile è il compito di riassumerle in poche parole senza peccare di una certa superficialità. I diversi tipi di clown (di circo, di strada, di teatro, di corsia, ecc.) sono accomunati soltanto dai principi di vita che vogliono trasmettere. Il clown può essere considerato una sorta di filosofo, che inciampa nelle cose vicine perché immerso nel pensiero di quelle lontane: sia il clown che il filosofo  creano una distanza con tutto ciò che li circonda muovendosi in un altro tempo. Nella vita, si possono incontrare persone perbene che però sono un po’ come lui, “maschere” che vogliono far ridere, cercano consensi, si nascondono dietro la loro vera identità. Osservando attentamente il volto del clown si nota che, sulla guancia è immortalata una lacrima: è un pagliaccio triste. Chi fa ridere per antonomasia, sta piangendo.

L’arte utilizza immagini, crea allegorie della vita reale, ma la realtà può essa stessa rappresentare una qualche forma d’arte? Quante volte, ad esempio, “recitiamo” un ruolo adeguato all’immagine che ci siamo costruiti di noi stessi, attraverso i pensieri della gente, le conferme esterne oppure le disconferme, i rifiuti. Da bravi teatranti, impariamo la “parte”, ci presentiamo agli occhi degli altri con un volto. Ma il nostro, qual è? “Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è – scriveva Pirandello -. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre ‘qualcuno’. Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere nessuno”.

Adele Paglialunga

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