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Il sisma di Avezzano non ha insegnato nulla

di | 2021-01-25T00:47:18+01:00 24-1-2021 6:05|Attualità, Sezione 2|0 Commenti

AVEZZANO (L’Aquila) – 13 gennaio 1915, ore 7,52: una scossa del VII grado Richter distrugge Avezzano, Gioia De’ Marsi, Ortucchio, Lecce de’ Marsi, Collarmele, Paterno e Canistro, causando oltre 30 mila vittime nella Marsica e nel Cicolano, ancora in territorio abruzzese (la provincia di Rieti venne istituita nel 1927). Borgorose piange 150 vittime, di cui 80 solo nella frazione di Corvaro. Avezzano contava circa 13 mila abitanti, ne sopravvissero 3 mila. Il convitto femminile Maria Clotilde di Savoia fu la tomba di 300 alunne: se ne salvarono sette. Migliaia gli orfani (1300), raccolti da don Luigi Orione, che per trasportarli a Roma sequestrò d’impeto una vettura del Re Vittorio Emanuele, in visita nelle zone colpite. L’auto gli fu poi donata direttamente dal Re. Ignazio Silone perse quasi tutta la sua famiglia, si salvò insieme al fratello Romolo e venne colpito dalla figura di quel prete che successivamente lo inviò a insegnare nei collegi da lui gestiti a Sanremo e Reggio Calabria.

Tutte le case, chiese, monumenti vennero rasi al suolo, in un mucchio di pietre e di polvere che soffocava: tutto era bianco. La stazione ferroviaria di Avezzano era distrutta, le linee telegrafiche e telefoniche erano isolate, morto anche il radiotelegrafista (il 15 gennaio Guglielmo Marconi giunse ad Avezzano per installare una stazione radiotelegrafica), le prime notizie si diffusero grazie ai corrispondenti locali delle testate giornalistiche che inviarono articoli alle rispettive redazioni (La Tribuna, Il Messaggero, Il Popolo d’Italia, il Giornale d’Italia, La Nazione). La Stampa titolava “L’ecatombe di Avezzano – Re tra le rovine e i cadaveri”. I giornali organizzarono raccolte fondi per la ricostruzione, pubblicarono le proteste dei sopravvissuti per i ritardi, la mancanza di trasparenza nei soccorsi e nella consegna delle baracche di legno, una vergogna lunga un secolo (a Balsorano ci vivono ancora oggi decine di famiglie, alcuni comuni le hanno messe all’asta qualche anno fa). I ritardi causarono altre vittime rimaste sepolte dalle macerie, si udivano le grida, ma non era possibile intervenire.

L’Italia non si rese conto subito della gravità della tragedia, peggiore del terremoto di Messina del 1908. Lo Stato si dimostrò impreparato e inefficiente, concesse un sussidio di 2 mila lire alle famiglie più in difficoltà, sgravi e agevolazioni ai più abbienti, ma non capì le reali necessità di un popolo di agricoltori che aveva perso sotto le macerie anche i mezzi agricoli e il bestiame per lavorare la terra. Quando la notizia si diffuse iniziò una grande gara di solidarietà e come sempre fecero la differenza le persone e le associazioni, i ferrovieri donarono parte del loro stipendio, una squadra di pompieri giunti da Bologna riuscì a salvare alcuni superstiti, si mobilitarono gli emigrati italiani in Sud America. Anche l’Austria offrì il suo aiuto, ma il governo di Antonio Salandra lo rifiutò, per la delicata situazione internazionale: “Noi non abbiamo bisogno di qualche migliaio di lire straniere. Abbiamo invece bisogno di non avere debiti di gratitudine verso stranieri che oggi o domani possono essere nostri nemici”.

Dopo appena quattro mesi, con la dichiarazione di guerra per Trento e Trieste (contro la quale si era battuto inutilmente Giovanni Giolitti) vennero arruolati anche i giovani sopravvissuti dai 18 ai 40 anni: duemila non fecero ritorno. L’esercito dovette tornare alle rispettive sedi e nei paesi distrutti rimasero donne, vecchi e bambini, non c’era nessuno per coltivare, allevare, ricostruire, mentre i fondi per la ricostruzione restarono fermi per cinque anni. Tra neve, fame e freddo, la gente nelle baracche (senza camino) si arrangiava come poteva, accendendo il fuoco in un angolo della terra battuta del pavimento: la civiltà contadina fu come sempre un grande ammortizzatore sociale. Nei paesi ormai quasi disabitati giunsero maestri, braccianti, muratori, medici, carpentieri da altre Regioni fra cui Veneto, Lazio, Marche e soprattutto Puglia. Nel 1919, finito il conflitto, il Governo stanziò 20 milioni di lire per la costruzione di altre baracche, ma non va dimenticato che nello stesso anno scoppiò l’epidemia di Spagnola che fece altre vittime.

Ad Avezzano restò in piedi solo una abitazione, oggi monumento nazionale: è la casa in via Garibaldi, costruita dal bolognese Cesare Palazzi il “cementista armato”. Due piani, 160 metri quadri, una forma a ‘elle’, blocchetti di cemento armato con leganti dello stesso materiale (non in calce come le altre abitazioni), fondamenta su terreno breccioso, realizzate con la tecnica della trave rovescia o plinto rovesciato, anche i cordoli sono in cemento armato. Il tetto-terrazzo è formato da putrelle collegate anch’esse a cordoli in cemento armato. In Brasile Palazzi aveva costruito i primi grattacieli, ai primi del ‘900 venne chiamato dai Principi Torlonia, perché dopo il prosciugamento del lago del Fucino servivano esperti per costruire le paratie a tenuta stagna dei canali. Ancora oggi la struttura viene studiata ed è abitata dal pronipote Claudio Palazzi, presidente di Italia Nostra. La casa venne requisita dalla Prefettura e fu la base strategica per organizzare i soccorsi e riporre le opere d’arte recuperate.

Grandi manifestazioni sono state organizzate nel 2015 in occasione del centenario, con convegni, lapidi commemorative; ogni anno si celebrano messe di suffragio, ogni famiglia commemora i propri morti, fra cui tanti bambini. Anche nel comune di Borgorose, che in quel periodo si chiamava ancora Borgocollefegato e nelle frazioni di Sant’Anatolia, Corvaro, Torano, le più vicine alla Marsica, ci fu morte e distruzione, danni anche a Fiamignano, Pescorocchiano e Petrella Salto. Corvaro venne distrutta e ricostruita in basso. Le case collassarono una sull’altra, della chiesa parrocchiale di Santa Maria restano le mura perimetrali, il campanile e alcuni ruderi dell’abbazia. La parrocchiale fu la prima chiesa del Cicolano ad avere un organo vicino all’altare maggiore e ben tredici altari. Le funzioni religiose venivano celebrate nelle baracche di legno donate da Papa Benedetto XV. A distanza di 18 anni don Flippo Ortensi scrisse al papa Pio XII per chiedere aiuti tangibili. Dopo 23 anni venne inaugurata la chiesa di San Francesco Nuovo, accanto alla quale nel 2018 è stata eretta la lapide commemorativa degli 80 morti della frazione. Anche quest’ anno il gruppo alpini di Corvaro e Santo Stefano ha partecipato alla messa di suffragio, rispettando le regole anti Covid. I primi venti anni di questo nuovo secolo sembrano proprio replicare i primi venti del secolo scorso. Nel frattempo cosa abbiamo imparato, cosa è cambiato? La tecnologia aiuta a diffondere le notizie più velocemente, siamo più organizzati nelle emergenze, abbiamo una Protezione Civile efficiente, ma per tutto il resto ripetiamo sempre gli stessi errori.

Francesca Sammarco

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