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I tic linguistici che minano l’italiano

di | 2020-08-27T20:01:33+02:00 30-8-2020 6:00|Cultura, Sezione 1|0 Commenti

ROMA – Lo facciamo tutti – chi più chi meno – ma sarebbe meglio evitarlo. Per alcuni non è grave, altri ci si dannano e fanno loro una guerra. Ma è una guerra che, a quanto pare, è già persa perché a dispetto delle grammatiche e dei pareri di esperti e docenti, contro i cosiddetti “tic linguistici” non c’è niente da fare. Si diffondono in modo subdolo e vengono ripetuti fino alla noia anche se molti ne conoscono la innegabile inutilità. Si tratta di quei suoni, quelle frasi, i modi di dire che non hanno un vero e proprio significato, ma che sembra ci manchi la terra sotto i piedi quando non li abbiamo a disposizione durante una conversazione. Li ripetiamo automaticamente per riempire, nei nostri discorsi, i vuoti, gli indugi, le pause e vi ricorriamo quando sembra che la parolina, la risposta, sia sulla punta della lingua ma non siamo proprio del tutto convinti di volerla pronunciare, o che sia quella giusta.

E quindi, per uscire dall’imbarazzo, per tirarla alle lunghe, giù con quegli inutili intercalari che talvolta ci conferiscono anche un tono erudito – se la platea non ha l’orecchio fino – ma il più delle volte possono causare equivoci e fraintendimenti quando non, addirittura, dei danni interpretativi anche gravi. Succede, purtroppo. E succede anche spesso, con risultati diametralmente opposti a quelli cui dovrebbe giungere una lingua, per sua definizione codice di comunicazione in cui ogni suono o segno ha (dovrebbe avere), lo stesso significato per tutta la comunità. E allora cosa ci stanno a fare nella nostra bella favella espressioni come “piuttosto che”, “quant’altro”, “tipo”, “ovvero” (ma la lista è ancora, purtroppo, lunga), disseminati come il prezzemolo nei nostri discorsi, come a volerli condire, arricchire? Facciamo tutti un “mea culpa”, nessuno ne è immune.

Fin qui non ci sarebbe neanche niente di male – quando si tratta di stile ognuno fa come gli pare – ma il brutto della faccenda è che queste espressioni, parole, frasi apparentemente innocue, in realtà minano la lingua italiana e distorcono la comunicazione. Sono dannosi e portatori di una disfunzione. Non a caso si chiamano “tic”, per la precisione “tic linguistici”. A memoria d’uomo il più morboso che si ricordi fu “cioè”, che si diffuse negli anni ’70 a condire, iniziare, concludere qualsiasi discorso. Anzi, a volte il discorso neanche c’era e come risposta o come domanda, in una conversazione, poteva trovarsi anche da solo, laconico, magari preceduto e seguito da puntini di sospensione. Niente di più vago, generico, ma allora bastava togliere i “cioè” e forse qualcosa si capiva. Ora, però, la questione è peggiorata perché qui il tic ha assunto una forma più grave fino a diventare una discrasia: c’è chi usa una parola e ne intende un’altra ma il brutto, anzi il bruttissimo della faccenda è che, se il “cioè” non aveva pretese di riconoscimento sociale, invece i nuovi tic si presentano come biglietto da visita di pseudo-intellettuali e comunque nascono e prolificano in ambienti radical-chic, preferibilmente tra giornalisti, conduttori televisivi e radiofonici cui, insieme all’informazione ufficiale, piace tanto seminare queste perle poi ripetute dagli inconsapevoli uditori come “verbo”. E venne il caos, fu edificata la torre di Babele.

Prendiamo ad esempio il caso di “ovvero”, congiunzione per la quale la storia della confusione è lunga sin dal Medioevo. “Ovvero”, infatti, è una congiunzione sia disgiuntiva che esplicativa. Nel primo caso significa “oppure” perché introduce un’alternativa tra due concetti, nel secondo caso significa “ossia”, “vale a dire”, “cioè” e si chiama esplicativa perché serve, appunto, a spiegare. Il caso di “ovvero” è stato oggetto anche di discussione politica ed era stato proposto anche di eliminarne del tutto l’utilizzo perché – non si può negare – dire “ossia” invece che “oppure” può creare seri problemi specialmente quando l’equivoco nasce in una sentenza di tribunale o in un bando di concorso, ambiti in cui le parole non possono essere usate indifferentemente l’una al posto dell’altra. Chiuso in questa sede il caso emblematico di “ovvero” (al momento sospeso dopo un emendamento alla Camera), però, rimane tutto il resto su cui molti di noi mettono il carico da dodici.

Tra gli altri pericolosi tic “piuttosto che” è, al momento, il più inflazionato. Da un po’, infatti, ha perduto il significato di “anziché” (che indica una preferenza), per prendere quello di “o” (per indicare una equivalenza). Questo qui pro quo è causa di un disturbo continuo nella comunicazione dove lo scambio comporta problemi logici che non sono da sottovalutare perché, per esempio, dire “Voglio andare al mare anziché in montagna” può avere risvolti diversi da “Voglio andare al mare o in montagna”. E per questo ci si trova spesso a dover riflettere su quanto detto da giornalisti e conduttori televisivi per capire quel che volevano intendere. Un problema, questo, che gli specialisti non hanno sottovalutato ed è diventato argomento di convegni e incontri sulla lingua italiana. Tra gli studiosi si è certi anche dell’origine di quest’uso scorretto della locuzione che ultimamente molti sfoggiano nel proprio eloquio. Scritto e parlato. “E’una voga d’origine settentrionale – fa notare la linguista Ornella Castellani Polidori sul numero 24 de La Crusca per voi – sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo. Era fatale che tra i primi a intercettare golosamente l’infelice novità lessicale fossero i conduttori e i giornalisti televisivi, che insieme ai pubblicitari costituiscono le categorie che da qualche decennio governano l’evolversi dell’italiano di consumo”.

La linguista, autrice di un libro sull’argomento, è diventata la sostenitrice dei circa mille paladini della lingua italiana riuniti in un gruppo Facebook. Ma la guerra è dura. A ondate emergono dalla nostra favella manifestazioni ossessive di disagio linguistico che poi risulta difficile eliminare quando si sono ben radicati. Tra gli ultimi tic c’è “quant’altro”, ormai immancabile, quasi compulsivo, a conclusione di ogni discorso al posto di “eccetera” e di “e così via”. In realtà si tratta di un pronome relativo e quindi, usato e abusato così, risulta monco di un verbo ma fin qui ci si può arrivare perché un verbo può essere sottinteso. Ciò che dà fastidio, però, è l’impressione che il discorso sia stato lasciato in sospeso (come in effetti è), perché l’oratore non sa concluderlo meglio di così. Aggiungiamo a questa situazione “tipo”, “come dire”, “di che cosa stiamo parlando?” e la nebulosa sarà completa.

Sembrerebbe questione da poco ma non lo è ed il rischio è che, continuando a raccogliere le parole che ci piacciono e ad usarle senza conoscerne il vero significato, potremmo veramente ritrovarci al mare pur volendo andare in montagna.

Gloria Zarletti

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