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Roberta, 163 cm di umiltà e caparbietà

di | 2018-05-20T07:18:40+02:00 20-5-2018 6:05|Attualità, Sezione 2, Sport|0 Commenti

TARANTO – “Così smetto”, disse il Doutor Socrates mettendosi in ginocchio, e tirò le scarpe bullonate nel cestino del “Mengao”: aveva 33 anni. Well done, deve aver annuito da qualche parte Lord Byron, uno che tra il ribrezzo per la rima sbagliata e la ricerca della pallottola giusta trovò il tempo di scrivere: “Quando sono per sempre, gli addii dovrebbero essere rapidi”. Le febbri reumatiche lo presero in parola, seccandolo alla svelta in un letto, greco come il pianto: aveva 36 anni. Sul “Pietrangeli” del Foro Italico, mentre Nick l’originale celava i pensieri dietro la saracinesca degl’immancabili Ray-Ban, Roberta Vinci ci ha messo anche meno: “Vado in vacanzaaaaa! Non ne potevo piùùùùùùù!”, la a e la u in applicazione eco, casomai non fosse chiaro il concetto. Una vacanza senza rientro.

E giù frane d’applausi, da far tremare gli occhiali di Nick. E giù lacrime a righe lungo gli zigomi di Roberta, ma mica tante, perché una che ha la coscienza con le ali, e l’anima più libera d’un volo, per quale accidente di motivo dovrebbe continuare a piangere? L’aveva detto da un anno che l’anno sarebbe stato finàl, ma non solitario né triste. Avrebbe potuto, forse dovuto evitarselo, evitarlo anche a noi, i gradini oltre il cento non si contano da un pezzo, le eliminazioni al primo turno neanche, gli acciacchi siamo lì. Ma poi non se l’è sentita, ha creduto in una striscia, o ha preteso da se stessa, si è ficcata nel borsone e ha continuato l’unica vita che ha conosciuto sinora, trascinando il suo nome onorato, il suo tennis miniato, i suoi gesti da favola araba, la sua leggenda lieve, nelle tonnare di partite urticanti in cui non riusciva più a distinguere le voci, ad anticipare i rimbalzi, a prevedere gli angoli. Era ovvio, sì. Ma tanto valeva, a quel punto, aspettare l’appuntamento, e andarci: Roma, Foro Italico, casa sua da ragazza. Cominciò tutto lì, nel centro federale, era il ’97. In coppia con Flavia Pennetta, guarda tu il Fato, Roberta aveva appena vinto l’Avvenire. Appena il tempo di finire la media a Taranto e ciao a tutti, non so chi sono ma so chi dovrò essere. Aveva 14 anni. Ora ne ha 35. Ventuno anni fa. Ventuno, come le rose rosse che le ha donato il Fit-presidente Binaghi. “E ora toglietemi ‘sto microfono”, ha intimato infine felice al tipo sul rosso. Che importava più aver perso l’ultimo, ultimissimo match, 6-3 al terzo dalla serba Krunic. Che importava più questa cosa, o qualsiasi altra.
Dieci milioni di dollari in premi, sponsor esclusi, doppi ovviamente inclusi. “Niente male. Li ho gestiti con i miei. Una casa a Milano”. Vista lunga, Milano è strategica. “Ma mica per la TV, non mi ci vedo”. No, non per la TV, Milano è strategica sempre. “Mi piacerebbe allenare i piccoli”. E lo farà di certo, non riesco a immaginare una Federazione talmente miope da farsi scappare una così. Magari lo farà a Taranto, part time o anche no, nel CT Taranto, dove nacque e crebbe con Umberto Piccinni e soprattutto Davide Diroma: sai che spinta per il movimento locale, non avessi la barba bianca tenterei di camuffarmi tra gli under 12 pur di fare un cesto con lei. Per intanto torna qui, anche perché arriva l’estate e il mare nostrum. “Abbiamo riacquistato una figlia”, esulta mamma Luisa: “Ora potrà fare cose semplici, quelle che non ha mai potuto, un gelato, il fidanzato…”. Una famiglia propria, oltre quella del nipotino che l’aspetta, il figlio di suo fratello Francesco. “Si chiude una storia bellissima, impensata”, sospira papà Angelo, ai suoi dì cagnaccio autodidatta con cosce da mediano che di tornei ennecì ne mollava pochi, pochissimi, a sberle da orbi con altri mastini di nome Scarpa, Sferra, Angiulli: “Torna a respirare la nostra aria”. Ahem, lascerei perdere.

Facciamo anche finta di dimenticare che è la stessa Taranto della casa in cui, un anno fa, ignoti hanno rastrellato coppe, gadget, targhe e trofei di tutta la carriera. Sulla quale i criticonzi vaticinarono, avendo inchiostro da perdere: non ce n’è, troppo bassa, 163 cm, come si fa contro le gigantesse, troppo leggera, troppo datata, massì, qualche doppio, in singolo non si presentasse. Si è presentata. Li ha zittiti, li ha uccisi tutti. Ci ha messo tempo. Anni. Ma non ha mai smesso di esserne convinta. A 22 è entrata per la prima volta tra le cento, a 28 per la prima volta tra le trenta e chiuso a dicembre tra le venti. Poi, la rivoluzione. L’irruzione, lei che viene da un altro mondo, da un altro tennis: ma che ha marchiato questo. Dieci titoli in singolo. Dieci. In singolo. Ventidue in doppio, dov’è stata a lungo la uno del pianeta insieme alla gemella, Sara Errani, altra nana irrisa, altri 160 cm incendiati di voglia dinamitarda, le imbattibili “Cichis”, 5 dicasi 5 Slam oltre al resto, due Australian Open, Roland Garros, Wimbledon. In effetti sull’erba se la cava perché maschera, aggiunsero i criticonzi con una smorfia: avrebbe, ha vinto, e in singolare, titoli su erba, terra, cemento e sintetico. Quattro Federation Cup con il record (imbattuto) di 18 vittorie consecutive in doppio, tra le top ten  –  come si permette – nel 2016, numero 7 esatti due anni fa, cavaliere del Lavoro, Commendatore, Collare d’oro per meriti sportivi, ceffoni in faccia a sei vincitrici di Slam  e a quattro passate o presenti numeri uno: Wozniacki, Ivanovic, Jankovic. E Serena. Naturalmente Serena, mai più serena, dopo, tanto da sparire sino a data da destinarsi, com’è possibile che sia stata ‘sta lillipuziana ad avermi impedito il Grande Slam? Serena, la seconda delle Williams, ma solo per età. Per il resto, la più forte di tutti i tempi, la più inavvicinabile sbranatrice di guadagni, avversarie, primati, tornei. Ladies and gentleman, miss S. Williams against miss R. Vinci. Semifinale US Open 2015.
Non si capisce come Roberta abbia fatto a scammellare i quarti, in questa metà tabellone, ma i criticonzi a questo punto riposano sotto un metro di terra e non possono più nuocere. In quell’altra, fa strage di cuori, di set e di match l’eterea Flavia Pennetta da Brindisi, proprio lei, l’amica di gioia, la gemella di sogni, chioma corvina e copertine fashion in linea griffata col compagno Fognini detto “Fogna”. Roberta la ringraziano in anticipo: bravissima, complimenti per i soldi e per i punti WTA, dopo averle prese da Serena dove andrai? 6-2 finisce il primo per la cannon-girl, io davanti a una tv grande come una Derringer scolavo come l’estate, Roberta, prova a farla muovere, usa il tuo back di un’altra epoca, quando i maestri dicevano, anzi ringhiavano: non ti azzardare, tiralo piatto, ma le racchette erano guance di bambole, uova alla coque, e prendere la pallina al centro era come tenerti stretta la donna della tua vita, un lavoro, un’intimità, una dedizione, a volte una botta di culo, persino più che una consapevolezza.

Come hai fatto?, le hanno chiesto poi. “Butta la palla di là e corri, non fermarti a pensare. E così ho vinto”. Che bugiarda, che bugiarda beffarda. Palla su palla, centimetro su centimetro, Serena pressava ma non sfondava, Roberta subiva ma non cedeva, prendeva una scarpa di campo, poi un passo, affettava il rovescino stretto sul rovescio dell’Ercolessa, i cui gemiti diventavano urla, le cui urla diventavano pianti, i cui impatti diventavano cingoli, la faceva piegare, Roberta, e le pieghe di Serena diventavano piaghe, sembrava poco a poco di sentirne i quadricipiti creparsi, un suono stridulo di cassetti segreti, di ante rugginose, di segreti inconfessati, di verità inaudite, si piegava Serena, ma si piegava male, si allargava peggio, e Roberta entrava sempre di più, contro tempo, contro storia, contro tutto, per chiudere con la sua mano incantata volée dall’altra parte dell’emisfero, scortata dai vecchi santi coi guanti bianchi e le corde in budello, francobolli di righe accarezzati senza un rumore che non fosse un canto di grilli, una melodia di sirene. 6-4, 6-4. Impossibile. Invece sì, sacramenta Roberta agli spalti, alla gente, al mondo, invece sì, ho vinto io, mi vedete?Io, Roberta Vinci da Taranto, ho vinto io, avete capito? E allora applauditemi, cazzo, o andatevene affanculo. Attimo di silenzio, più pregno d’un temporale. E standing ovation.
Sarebbe fuggita via la finale, due giorni dopo, contro la gemella, per pochi quindici, per pochi millimetri, forse per consumazione, forse per predestinazione. Nessuno mi toglie dalla testa che la chiave di quel 7-6, 6-3 sia stata il primo: teso, bruttino com’era scontato che fosse, ma nel complesso giocato appena meglio da Roberta, che ebbe almeno due occasioni comode per farlo proprio. Ma in una partita così, dentro un assurdo sportivo così che aveva rivoltato il mondo non solo italiano e non solo sportivo come il libeccio fa con ogni fondale, di comodo non poteva e non potrebbe esserci mai nulla. Perso il set, Roberta perse il filo del sogno, prima che del gioco, o forse capì che semplicemente non c’era scritto il suo nome, sull’assegno degli Dèi, e non le dispiacque da matti – chi sa – che a incassarlo fosse la socia della sua alba. Una trentina di mesi dopo, i giorni servono soltanto a togliere polvere, regalando splendore: mica a depositarla. “Noi viviamo per dire sempre addio”, scrisse Rainer Maria Rilke, un poeta, un uomo che visse con la pistola addosso dei suoi mille e uno tormenti. La cifra di un uomo, ho sempre pensato, è nel modo in cui saluta. Ma non tutti gli addii sono rottura, e non tutte le lacrime sono confine. Vola, Roberta, e grazie di tutto. Il cielo è sempre lo stesso. Le ali, perché no? Pure.

Marco Tarantino

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