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Germano Nicolini, quel “Diavolo” di comandante

di | 2020-10-30T20:19:58+01:00 1-11-2020 6:20|Cultura, Sezione 5|0 Commenti

PERUGIA – Germano Nicolini è morto. Nato a Fabbrico il 26 novembre 1919 in una famiglia contadina, aveva un secolo e 11 mesi e per quasi metà della sua lunga esistenza aveva combattuto per ottenere giustizia, perché condannato a 22 anni di reclusione per omicidio, quello di don Giuseppe Pessina, consumato il 18 giugno 1946 nel “triangolo rosso” dell’Emilia Romagna (Bologna-Reggio-Ferrara), pur essendo del tutto innocente. A riconoscere la sua estraneità all’odioso delitto, nel 1994, la corte d’assise d’appello di Perugia. Ben 47 anni dopo il suo arresto, avvenuto nel marzo del 1947, che gli aveva sconvolto la vita pubblica e privata (una moglie, una bimbetta e un figlio in arrivò).

Ho visto, conosciuto e intervistato Nicolini, denominato “il capitano Diavolo”, nei corridoi di palazzo di Giustizia di Perugia, davanti all’aula della Corte d’Appello dove si celebrava il processo di revisione. Anziano, snello, ma lucido, deciso, autorevole, di buon eloquio (aveva conseguito il titolo di ragioniere e, per la guerra, aveva dovuto interrompere gli studi universitari) si mostrò diffidente sulle prime. D’altro canto si era scontrato, per decenni, contro un muro di gomma, senza ottenere risultati. Proprio nel capoluogo umbro, dove il processo per l’omicidio del parroco di Correggio era stato inviato nel primo dopoguerra in virtù del principio della “legittima suspicione”, gli era piovuta sul capo la pesante condanna, per la quale era stato condannato quale mandante ed in base alla quale era rimasto in carcere per dieci lunghi anni. Comprensibile che non provasse simpatia per la città. Tuttavia durante una pausa del procedimento e prima della sentenza assolutoria mi consegnò – con le parole e con un mezzo sorriso: “Per documentazione” – un libro, una sorta di autobiografia, stampata l’anno prima, dal titolo “Nessuno vuole la verità – il processo Don Pessina”. Lo conservo ancora.

Il parroco venne freddato da tre partigiani a colpi di pistola davanti alla sua canonica di San Martino Piccolo, a guerra finita da un pezzo. Gli assassini chiamarono il sacerdote con una scusa e una volta che se lo trovarono davanti lo uccisero. Il terzetto arrivò e se ne andò, in bicicletta. Le indagini si indirizzarono quasi subito su Nicolini. Giá ufficiale del terzo reggimento carristi di Bologna ed arrestato dai tedeschi a Roma (era riuscito a fuggire subito), nel settembre del 1943 era entrato nelle fila dei partigiani, arrivando presto al grado di comandante del 3o. battaglione Sap della 77. brigata “Fratelli Manfredi”. Durante la lotta partigiana era conosciuto coi nomi di battaglia di “Demos”, di “Giorgio” e, negli ultimi mesi, di “Diavolo”. Questo soprannome glielo avevano affibbiato i compaesani, che lo avevano visto fuggire, pedalando come un ossesso sulla bici tra i campi, inseguito dai colpi di fucile dei tedeschi e dei fascisti. “Pedala come un diavolo”, aveva commentato qualcuno. E quel nomignolo (“Dievel”, in dialetto) gli si era appiccicato addosso, diventando più noto delle sue vere generalità e contribuendo, forse, alla sua incriminazione.

Nei combattimenti contro i nazifascisti si era fatto apprezzare e rispettare per la sua audacia, in ben tredici scontri e nelle battaglie di Fabbrico e di Fosdondo. Ferito due volte. Nicolini continuò senza tentennamenti la sua resistenza. E dopo la Liberazione, tanto era radicata e vasta la sua fama, venne eletto, a 26 anni, pochi mesi dopo l’assassinio del parroco, sindaco di Correggio. Fatale risultò per lui, proprio l’omicidio di Don Pessina: non solo l’arresto e la condanna, ma anche la cancellazione dei diritti civili e persino la radiazione dall’Esercito con la perdita del diritto alla pensione di guerra, che gli era stata appena riconosciuta. Con la stessa determinazione con cui aveva combattuto per la Libertà, si era speso per decenni perché gli venisse resa giustizia. Purtroppo per lui né la chiesa locale (i cui vertici lo consideravano “un cattolico passato ai rossi”), né il Pci (che conosceva la verità, ma i cui capi non vedevano di buon occhio il suo successo e la sua autonomia di giudizio e avrebbero voluto farlo espatriare in un paese comunista, opzione che Nicolini rifiutò) presero posizione in suo favore.

Dopo molti anni (nel 1990) il movimento “Chi sa, parli” partito per iniziativa dell’avvocato ed ex deputato comunista Otello Montanari, mise insieme tutta una serie di elementi per far aprire il processo di revisione nel quale furono riconosciuti i responsabili del delitto (a loro volta prosciolti in base alla legge del 1953) ed assolti i condannati ingiustamente. Questi ultimi presentarono richiesta per indennizzo per ingiusta detenzione ad un collegio perugino formato dai giudici Emanuele Salvatore Medoro, Gabriele Verrina e Giampaolo Goretti. Non ricordo se e quanto sia stato liquidato dallo Stato a chi aveva patito, anche sotto il profilo psicologico d dell’immagine sociale, l’ingiusta condanna per quasi cinquanta anni.

Qualsiasi cifra abbia ottenuto dallo Stato (sempre che ci sia riuscito) sarà risultata, comunque, del tutto inadeguata.

Elio Clero Bertoldi

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