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Così la bonifica cambiò il volto della Piana reatina

di | 2020-11-19T18:07:42+01:00 22-11-2020 6:25|Cultura, Sezione 6|0 Commenti

PETRELLA SALTO (Rieti) – A novembre dello scorso anno sono stati ricordati gli 80 anni dalla costruzione della diga del Salto, con una cerimonia che ha ripercorso le vicende storiche e il progetto della bonifica reatina. A differenza del periodo romano, quando la bonifica della Conca Reatina (attribuita dalla tradizione al console Mario Curio Dentato) venne effettuata con un taglio alle Marmore che svuotò parzialmente il Lacus Velinus, quella realizzata nella prima metà del ‘900 “fu un’opera per riempimento e non per svuotamento, il cui progetto iniziò fin dai primi del ‘900” ha sottolineato lo storico Roberto Marinelli, autore del volume “La bonifica reatina – Dal canale settecentesco di Pio VI alle Marmore, agli impianti idroelettrici del Bacino Nera-Velino” (edizioni Libreria Colacchi). La pubblicazione è un meticoloso lavoro di ricerca, sollecitato dalla Madre generale dell’Istituto delle Suore Francescane di Santa Filippa Mareri, Margherita Pascalizi, per dare compimento al lavoro di ricostruzione delle vicende legate alla realizzazione degli impianti idroelettrici, da inquadrare nella visione complessiva dei lavori di bonifica.

Il monastero originario, di epoca medievale, fu sepolto dal bacino artificiale del lago del Salto, insieme ai paesi di Fiumata, Teglieto, Borgo San Pietro. La pubblicazione è stata finanziata dalla Regione Lazio, Provincia di Rieti, Bacino Imbrifero montano Nera-Velino, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Rieti, Consorzio della Bonifica reatina, Comunità Montana Salto Cicolano e Turano, Comuni di Petrella Salto e Varco Sabino. Nei pressi della diga del Salto si erge la grande lapide monumentaria, illuminata da fari fotovoltaici, sovrastata dalla statua della Madonna dei Balzi di Santa Lucia, in ricordo degli operai caduti durante i lavori, che hanno usato la dinamite per costruire le gallerie di collegamento tra i laghi Salto, Turano e Cotilia, nella Piana di San Vittorino: “Queste opere imponenti testimonieranno nei secoli il vostro sacrificio per la grandezza della Patria”. Ricordiamoli ancora oggi: erano Giuseppe Argeni, Tobia Carenini, Umberto De Pellegrin, Brandimarte Di Loreto, Anselmo Di Carmine, Antonio Di Marco, Luigi Di Paolantonio, Antonio Patrizzi, Edoardo Paolucci, Martino Ranieri, Carlo Scaglia, Paolo Tempesta, Cesare Tomassetti, Giorgio Zorzi. Molti operai restarono invalidi.

Prima della realizzazione dei due laghi artificiali, la piana reatina si allagava e improvvisamente arrivava la “pianara” nei quartieri più bassi di Rieti (soprattutto Borgo e Porta Romana) e i carrettieri si trasformavano in barcaioli. Nelle cantine si puntellavano le botti e tutti si tenevano pronti a far fagotto, c’era chi aveva barche a fondo piatto, altri avevano pronta la tinozza (ogni estate i rioni si sfidano nel “Palio delle tinozze” sul fiume Velino, un appuntamento molto partecipato). Ancora oggi si ricordano le ultime grandi “pianare”: quelle del 1923, 1929 e del 1935, con danni ad abitazioni, chiese e gran dispiego di volontari e vigili del fuoco. Rieti viveva nell’acqua, con pescatori, tagliatori di canne, cacciatori di palude; durante le inondazioni, chi abitava nella piana, camminava con i trampoli sulle acque. Oggi questi ambienti palustri sono scomparsi, ma restano molti toponimi, fra cui terreni di Torrente, Padule, Pantano, Fiescenale, i Ponti, Ponticelli, Pié di Fiume, Pié di Rivo, Porto Corrente, Schiumarello…

La soluzione ai problemi delle esondazioni e all’impaludamento è stata lunga e travagliata, fin dall’epoca romana. Il 13 dicembre del 1939 il ministro dei Lavori Pubblici Adelchi Serena presenziò alla cerimonia inaugurale delle dighe del Salto e del Turano. La realizzazione dei due bacini artificiali favorì l’insediamento sui terreni nella Piana reatina con lo sviluppo di piccoli centri abitati. Una considerazione però va fatta: chi aveva vissuto d’acqua (pescatori, allevatori di gamberi, produttori di canapa, tagliatori di canne e cacciatori di palude, barcaioli, artigiani del giunco) dovette diventare contadino, mezzadro, impiegato, operaio; trassero giovamento gli agricoltori, il commercio, l’industria. Viceversa, nelle terre che vennero allagate, con terreni e abitazioni espropriate (senza un congruo risarcimento), chi era bracciante, colono, carrettiere, allevatore, dovette diventare pescatore o barcaiolo, ma molti emigrarono, dando inizio a un lento e costante spopolamento.

Il lago del Salto è stato visto per anni come un muro che ha separato le due valli Salto e Turano. Inizialmente la gente non si rese conto della reale portata dello stravolgimento in atto, poi protestò e manifestò e anche le suore del Monastero si opposero facendo invano vertenza alla società Terni. Del vecchio Monastero è stata recuperata solo la cappella di Santa Filippa Mareri, grazie all’intervento del Soprintendente alle belle arti de L’Aquila, che obbligò la società a finanziare il lavoro di asportazione degli affreschi, lo smontaggio dell’intero vano della cappella, pietra per pietra, trasferendo e rimontando tutto all’interno del nuovo monastero, ricollocando gli affreschi secondo il ciclo originario. Previsto nella primavera del 1941, lo sgombero del monastero e dei paesi dovette essere anticipato al 4 novembre 1940: l’acqua era salita prima del previsto, molti vennero trasferiti in barca. Tutto fu sommerso in breve tempo.

Francesca Sammarco

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