Durante il corso della mia breve vita mi è spesso capitato (e scommetterei non solo a me) di sentire la frase:” le donne maturano prima degli uomini!”, puntualmente recitata da una persona intenta a difendere o giustificare. Giunta alle mie orecchie, fin da bambina, ho sempre pensato che non fosse una giustificazione. Proprio per questo motivo ho iniziato ad acquisire quella consapevolezza di genere da un’età molto giovane. Alle elementari ero troppo piccola per capire certe dinamiche, ma abbastanza grande per farmi delle domande su di loro. Non capivo perché i ricami sui grembiuli fossero diversi per bambini e bambine; per quale motivo i bambini che preferivano giocare con noi venissero chiamati “femminucce”. È una cosa brutta essere femmine? Alle medie la mia consapevolezza si limitava a vocaboli semplici per descrivere situazioni complesse, non prestavo molta attenzione. Leggevo libri che mi portavano via dalla vita di una ragazzina provinciale. Nella vita quotidiana invece disprezzavo il rosa, le gonne, le calze maglie da mettere sotto i vestiti e le ballerine di vernice. Mi arrabbiavo quando qualcuno mi diceva di essere “più femminile”. Perché mai avrei dovuto? Era una rabbia passeggera, per la maggior parte alimentata dalla voglia di essere diversa dagli altri, valore che i miei genitori mi hanno sempre cercato di trasmettere ma per il quale ero troppo piccola per comprendere pienamente. Per questo criticavo le bambine che indossavano fieramente tutto ciò che le rendeva femminili, pensando che quello fosse troppo scontato per me, che fossi troppo intelligente per interessarmi così tanto del mio aspetto. Non so quando sia successo, quando esattamente io mi sia accorta che mamma e babbo non avevano provato a dirmi di essere diversa, ma di essere me stessa, che fosse in una gonna o in un paio di pantaloni non era importante. Non so nemmeno quando fu che smisi di pensare che vestirmi in modo femminile avrebbe in qualche modo minacciato la mia intelligenza. Non so quando, ma successe, e fortunatamente accadde abbastanza presto da permettermi di andare avanti con il mio percorso di consapevolezza. Quando il mio corpo iniziò a cambiare, ero molto infastidita. Sapevo che non era una cosa necessariamente negativa, ma non mi piaceva perché non mi faceva più sembrare quella bambina che io ancora volevo essere. Quando arrivai al liceo, 13-14 anni, iniziai ad ascoltare le notizie al telegiornale, a prestare attenzione alle discussioni di attualità attorno alla tavolata di natale. Sentendo parlare di certe cose, comparandole con ciò che avevo vissuto e sentito precedentemente, iniziò a montare dentro di me una rabbia incomprensibile. Me la portai dietro per tutti gli anni successivi, mentre crescevo e passavo di classe in classe. Sono arrivata a un passo e mezzo dalla fine del mio percorso scolastico sempre accompagnata da questo sentimento che ha formato parte della persona che sono oggi. Ancora non mi sento a mio agio con l’essere chiamata Donna, perché per me Donna è Mia Madre, che nonostante troppo le sia stato tolto, nonostante abbia dovuto rinunciare a troppo, continua a cercare un equilibrio tra sé stessa e gli altri. Mia madre ha avuto una figlia alla quale ha voluto donare tutta sé stessa, che ha cresciuto per essere una Donna in un mondo di uomini. Mi ha trasmesso la sua voglia di rivalsa, la sua passione, la sua rabbia in quanto Donna. Donna è Michela Murgia, maestra di parole che nelle pagine dei suoi libri ha lasciato un’eredità impagabile, di lotta e sacrificio. Un’eredità alla quale io faccio riferimento continuamente. Donna è senza dubbio la giudice Di Nicola, che è un altro ottimo esempio al quale guardare per tutte coloro che non si sentono all’altezza. Donna è Jane Austin, Simone de Beauvoir, Margaret Tatcher, Coco Chanel. Donne sono tutte coloro che si sono sentite arrabbiate e hanno saputo trasformare la loro rabbia in ispirazione per le altre. Donna è Paola Cortellesi, che recita e scrive in onore, ricordo e orgoglio di quelle prima di lei. Loro sono coloro a cui va il mio rispetto, la mia ammirazione. La mia rabbia invece va a tutte coloro di cui il nome non si conosce. Tutte le Mozart, Van Gogh, Da Vinci alle quali è stato proibito di comporre, dipingere o inventare. Quando sarò un quarto delle Donne che ho citato e il doppio di coloro che non hanno potuto mettere in pratica la loro vocazione, allora mi sentirò non solo in diritto ma anche in dovere di chiamarmi quello che sono.