//Il viaggio nella Memoria

Il viaggio nella Memoria

di | 2020-01-30T06:37:02+01:00 30-1-2020 6:37|Alboscuole|0 Commenti
L’Undici Gennaio 2020, con i nostri genitori, siamo partiti verso la Polonia, destinazione Cracovia. Non è il primo viaggio che abbiamo affrontato insieme ma è stato decisamente quello più profondo, più emozionante, perché ci ha portato in uno dei posti simbolo dello sterminio di milioni di persone, ebrei e non. Non avevamo ben chiaro cosa ci attendesse ma sapevamo di certo che sarebbe stato un viaggio che ci avrebbe segnato nell’animo. Cracovia in quei giorni era in fermento, perché vi erano alte cariche dello Stato italiano, in merito ad una iniziativa che si ripete dal 2007 “Il viaggio della memoria”, organizzato dal MIUR. Nel nostro hotel c’erano diverse troupe televisive intente ad intervistare personalità importanti come lo storico Marcello Pezzetti, uno dei massimi studiosi italiani della shoah, oltre che consulente storico di film come “La vita è bella” e “Schindler’s list”. Ma la presenza che più ci ha emozionati è stata quella di Oleg Mandic, ora ottantacinquenne, sopravvissuto ad Auschwitz. Oleg è stato l’ultimo bambino vivo ad uscire da quell’inferno ed ora gira nelle scuole italiane per raccontare il suo vissuto, la sua terribile esperienza. Abbiamo potuto scambiare alcune parole con lui e ne siamo stati onorati. Sul suo braccio vi era tatuato un numero, quello con cui venivano “marchiati” tutti i deportati. L’emozione di quell’incontro è stata fortissima e una frase ci rimarrà per sempre impressa: “Non dimenticate ragazzi, la storia non va dimenticata”. Carichi emotivamente di questo incontro, il giorno dopo ci siamo recati ad Oswiecim, meglio conosciuta come Auschwitz, nuovo nome che i Tedeschi diedero alla cittadina polacca. Era una giornata fredda, a tratti vi era anche della nebbia e il paesaggio nell’insieme metteva tanta tristezza. Con la nostra guida abbiamo iniziato la visita e l’insegna che spicca all’ingresso del campo cita testuali parole: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Una frase che stride con ciò che hanno dovuto subire i milioni di deportati che hanno varcato quella soglia e ai quali l’unica libertà permessa era rappresentata dalla morte. Un motto che, a detta della guida, rimarcava la violenza, la cattiveria dei nazisti che volevano solo affermare la loro superiorità e che negli anni è diventato il simbolo delle crudeltà subite dagli ebrei. Abbiamo iniziato la visita sul campo, eravamo un gruppo di 20 persone e quello che ricordiamo è il silenzio, ciò che si sentiva era solo il calpestio dei nostri passi. Camminare lì dove sono avvenuti i peggiori crimini contro l’umanità ci ha addolorato ma nel contempo resi sempre più consapevoli. Studiare la storia sui libri è ben diverso che “calpestarla”. La guida ci ha condotto nei vari blocchi, ora sono adibiti a museo, e ad ogni blocco la nostra tristezza aumentava. Nelle nostre orecchie risuonavano solo le parole della guida e parola dopo parola quella ferita della storia, letta sui libri o vista nei film, si riapriva. Per noi ragazzi i blocchi più duri da affrontare sono stati tanti; il primo, sicuramente, è stato quello dove sono conservati i capelli di chi arrivava ad Auschwitz, capelli che venivano tagliati a tutti, uomini, donne e bambini. La guida ci ha fatto subito notare come nelle foto esposte nei corridoi, non si riuscivano a distinguere uomini e donne. Con le teste rasate, le divise a righe e le facce impaurite non vi erano differenze e, in questo modo, neanche i fratelli si riconoscevano. Ogni blocco conservava gli oggetti quotidiani di chi era giunto al campo pensando di ricominciare una nuova vita: vi erano stoviglie, pennelli da barba, ecc. In un altro blocco vi erano le valige dei deportati, con i loro nomi e la data di nascita; tra tutte spiccava quella di una bimba di pochissimi anni e il senso di rabbia nel vedere ciò aumentava sempre più. Proseguendo la visita abbiamo visto il blocco che era dedicato a Mengele e alle sue sperimentazioni sui gemelli, atte a voler trovare il modo affinché tutte le donne tedesche potessero partorire solo figli gemelli. E’ in quel momento che abbiamo ascoltato la storia delle sorelle Bucci, salve dall’olocausto solo per essere state scambiate come gemelle. In seguito abbiamo visto i luoghi più atroci, come il muro della morte dove un’intera famiglia fu fucilata sotto gli occhi del capofamiglia o la stanza bunker, dove è morto Kolbe, francescano polacco, ora santo, che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia che aveva tentato di fuggire, e che quindi era stato condannato a morire di fame in cella. Il dolore e la rabbia per quei racconti così tragici, a tratti davvero crudi, ancor di più per noi ragazzini, aumentava sempre più ma la guida ci preannunciò che quello che avremmo vissuto nel campo di Birkenau sarebbe stato molto più forte. Così ci siamo spostati con un bus al secondo campo di concentramento, quello sicuramente più duro che rende ancor meglio visivamente la crudeltà inflitta a milioni di esseri umani. Se Auschwitz esternamente può sembrare un insieme di stabili in mattoni e ciò che rende maggiormente l’idea di campo di concentramento sono le barriere di filo spinato, a Birkenau al primo sguardo si respira morte. Non vi è più nulla se non i perimetri delle baracche di legno, le macerie dei due forni crematori, qualche baracca in mattoni e un binario, il binario della morte. La guida ci ha condotti lì dove arrivavano i deportati con i vagoni e proprio lì dove venivano smistati donne, uomini e bambini. Con un semplice cenno della mano il medico del campo indicava chi fosse abile al lavoro o chi dovesse essere destinato alle camere a gas. Un gesto di pochi secondi che decideva il destino di vite umane. Bastava avere le lenti, piuttosto che zoppicare per essere mandato a morte. Per gli altri era previsto un duro lavoro che combinato a dei pasti poco sostanziosi, li avrebbe condotti nell’arco di tre o quattro mesi alla morte. Ebbene sì, la crudeltà di certe menti aveva portato ad organizzare i pasti in modo che gli uomini non avessero il dovuto apporto calorico. A ciò si aggiungevano le fredde temperature, che potevano arrivare in inverno anche a venti gradi sotto zero, gli scarni vestiti che indossavano e le pessime condizioni igieniche. Pian piano, privi di forze, i deportati non riuscivano neanche ad alzarsi in piedi e venivano chiamati nel gergo del campo, “musulmani”, per la postura che assumevano tipica dei musulmani in preghiera. Di lì a poco sarebbero morti. Per tutti gli altri la morte giungeva per mano delle camere a gas presenti a Birkenau. Si facevano entrare i deportati con la scusante di fare le docce ma una volta all’interno, tramite delle colonne forate, veniva immesso lo Zyklon B, che di lì a poco li avrebbe uccisi tutti. Birkenau è un campo che scuote le coscienze, che fa riflettere, fa piangere, ci fa capire di quanta crudeltà possa macchiarsi l’uomo. L’ultimo luogo che ci ha fatto visitare la guida è stata una delle poche baracche ancora in piedi a Birkenau. Un luogo dove centinaia di uomini dormivano ammassati su tavole di legno e dove il freddo, la scarsa igiene e la presenza di ratti aggressivi, la faceva da padrone. Sono state quattro ore cariche di emozioni: le valige ammassate, i numeri impressionanti delle vittime, le baracche, i forni crematori, tutto è stato un pugno al cuore per noi; una atrocità del genere è avvenuta solo 75 anni fa e ad oggi entrambi sentiamo ancor di più il valore della storia, perché dietro delle parole stampate su un libro, ci sono storie di uomini, donne e bambini. Birkenau ed Auschwitz non si dimenticano e non vanno dimenticati: “Chi non ricorda la storia è destinato a riviverla”. Luigi Campese e Giulio Piazzolla III D