//I ventuno anni  dalla morte di Fabrizio De Andrè

I ventuno anni  dalla morte di Fabrizio De Andrè

di | 2020-01-22T14:28:20+01:00 22-1-2020 14:28|Alboscuole|0 Commenti
Era l’11 gennaio 1999: Fabrizio De Andrè morì a 58 anni. Pochi sono i giovani che hanno ascoltato una sua canzone, anzi, hanno ascoltato una sua poesia. Sì, poesie, perché, dietro quei testi con tono allegro, si nasconde un immenso significato, che spiega i problemi sociali del tempo. Qualcuno potrebbe pensare che, essendo definito il poeta dei deboli, sia una persona che provenga da bassi ranghi sociali. Ma nacque il 18 febbraio 1940 a Genova da madre e padre borghesi e, quest’ultimo, lo voleva far laureare in legge. Egli abitava all’ultimo piano di un palazzo del quartiere della foce, il liceo classico a un kilometro, il mare a 300 metri; le stesse distanze che separavano dallo stesso liceo e dallo stesso mare Giorgio Scolpiade, un suo amico figlio del portinaio che risiedeva nello suo stesso palazzo ma al piano seminterrato. Quindi una persona umile. Un giorno, il padre di De Andrè che era consigliere comunale repubblicano, decise di fare un comizio a Sestri Ponente, chiamata allora la «Piccola Russia», e di protestare contro i comunisti, esclamando ad alta voce: «siete tutti nemici della Repubblica!». Dopo, De Andrè vide venirsi incontro Scolpiade che esclamò: «Dici a tuo padre, anzi, dici a quel tuo fottuto padre che io sono comunista e che nemico della Repubblica sarà lui». Fabrizio De Andrè aveva 12 anni e capì quel giorno la non sottile differenza tra l’abitare al primo o all’ultimo piano e, da quel giorno, si sarebbe allontanato dalla borghesia e sarebbe andato in Sardegna a fare il contadino, scrivendo la notte. «Un giudice» (1971) dall’album «non al denaro. Non all’amore né al cielo».  In questo album, la narrazione segue un arco logico che unisce tutte le canzoni. In tutto sono otto personaggi che parlano da morti, dalla lapide, anzi, per amor di precisione, sono epitaffi. Ma nonostante ciò, sono più vivi loro che noi riuscendo a trasmettere il loro stato d’animo a noi. Il giudice di De Andrè ha un problema: vede che tutti crescono tranne lui e questo lo rende bersaglio d insulti. Si sente già nella prima strofa, il linguaggio più colto, perché De Andrè ha studiato lettere e epica: è un giudice e De Anrdrè ce lo dimostra. Poi prende consapevolezza dell’essere nano e, per lui, tutto gira al contrario. Ci dice che passano prima gli anni,poi i mesi e dopo i minuti senza trovare  nessun cambiamento in lui. Noi potremmo crescere anche di un centimetro la notte e lui nemmeno mezzo in un anno e per questo si sente bloccato. Ora questo nano, non ancora giudice,si vuole vendicare, e, alimentato dal rancore, cerca di ottenere una posizione di potenza sugli altri. Diventato finalmente giudice, si sente onnipotente e applica la sua errata giustizia, non per essere laborioso o giusto, ma solo per vendetta, scordandosi la pietà e il perdono di Dio. Questa canzone ci insegna che noi, quando nasciamo, siamo dei fogli di carta bianca e ogni persona ci scrive anche se per  un piccolo tratto e ciò definisce il nostro carattere. Se noi scriviamo cattiverie su un bambino, da grande egli ricambierà tutti i danni. De Andrè, poi, ci insegna il perdono non giudicando il comportamento errato del giudice, ma lo affida a Dio. Infatti, ancora oggi, non si perdonano gli errori, anzi si preferisce ricalcarli, facendo nascere  un senso di colpa, che si riversa su altre persone. Un giudice non è l’unica canzone che merita di essere ascoltata, in quanto il nostro De Andrè riesce ancora oggi a farci riflettere con i suoi testi di estrema attualità. Carmine Salerno I F