Arianna Mangini (2^C)
Stavo sfogliando il giornale e tantissime notizie mi si presentavano, con pubblicità continue tra le pagine. Si parlava della morte di una donna scozzese, per una grave malattia che non aveva potuto curare per la mancanza di soldi: rimasi colpito dai suoi occhi verdi molto profondi; e un uomo, a Londra era stato assassinato.
Il telefono squillò all’improvviso e andai a controllare chi fosse: un numero sconosciuto che però mi pareva aver già visto da qualche parte. Risposi alla telefonata e a parlare fu una voce roca che mi convocava per indagare su un furto e un omicidio avvenuto in un museo di Londra: proprio la notizia che stavo leggendo qualche secondo prima.
Si trattava di un museo egizio, non molto famoso. Ci andai.
Era piuttosto buio; non sembrava ci fosse anima viva. In una sala dove erano esposti dei vasi egizi molto particolari, c’erano quattro persone a circondare la vittima: la osservavano allibiti.
Solo uno non era preoccupato: era un poliziotto arrivato da poco e avrebbe dovuto seguire il caso con me. Quando lo vidi diventai cupo, non mi piaceva seguire i casi con qualcun altro perché preferivo non condividere le mie intuizioni; lo avrei sopportato di malavoglia.
Aveva un’aria familiare, come se lo avessi già visto da qualche parte. Era molto giovane, aveva capelli scuri, occhi verdi e i segni di una leggera barba. Si presentò, con accento scozzese: “Molto lieto di incontrarla, Boston. Io sono Mister Abernathy”.
Risposi: “Piacere mio”. Poi domandai: “Lei è scozzese giusto? Ha un accento molto evidente”.
Lui, sorpreso, mi rispose: “Sì signore, sono scozzese, vedo che è molto attento”. Riconobbi la voce sentita al telefono; proseguì: “Bene, possiamo iniziare gli interrogatori”.
“Non vediamo prima il corpo?” domandai; ma lui rispose prontamente: “No, i medici che arriveranno tra pochi minuti lo analizzeranno prima di noi”.
Sperai che non mi cancellassero qualche prova nel corso dell’analisi; nel frattempo le altre persone si fecero avanti, ci spostammo in una sala appartata e iniziammo a interrogarle sull’accaduto.
Dagli interrogatori era venuto fuori che Miss Champignon, una bella signora, era venuta al museo per chiedere spiegazioni su insulti rivolti a lei dal custode del museo, cioè dalla vittima, il giorno precedente. Mi informò che erano amici e che mai prima di allora lui si era rivolto a lei in modo così sgarbato e senza un valido motivo. Qualcosa nel suo racconto non mi convinceva.
Fu la volta di Mister Smith: mi sembrò subito che avesse un certo interesse per Miss Champignon, per come l’aveva guardata mentre lei gli lasciava il posto per essere interrogato. Aveva occhi azzurri e i capelli castani pettinati ordinatamente: molto curato, proprio come me.
Mister Smith mi rivelò che si era recato nel museo per l’ennesima volta, per avvisare la vittima, custode e allo stesso tempo proprietario del museo, che avrebbe dovuto chiuderlo per i debiti accumulati con la banca per cui lui lavorava . Il custode continuava da mesi a rifiutare di chiudere e di cedere tutti i suoi tesori a un altro museo molto più visitato. Mister Smith mi parve molto seccato. Proseguì nel racconto, dicendo che mentre si avviava verso l’uscita del museo, aveva sentito uno sparo e un urlo ed era accorso a controllare, ma nessuno poteva testimoniare che nel momento dell’omicidio lui si trovasse nei pressi dell’uscita.
Il terzo sospettato, Mister Howard, pareva innocente; era venuto a visitare il museo perché non l’aveva mai visto e aveva sentito dire che a breve sarebbe stato chiuso definitivamente. Aveva occhi verdi, lentiggini spruzzate sulle guance e capelli rossi molto disordinati. Lavorava come operaio al London Eye, come addetto ad allestire le nuove luci.
Passai ad osservare la scena del crimine che la scientifica aveva finalmente lasciato a noi: la vittima era distesa supina sul pavimento e dalla testa colava del sangue; vicino si trovavano i cocci di un vaso rotto e accanto alla mano la vittima aveva un pezzo di quel vaso, che raffigurava un occhio. Con quel vaso rotto il malcapitato voleva comunicare qualcosa.
Emerse che, contestualmente all’omicidio, era stato rubato un importante vaso egizio. Intuii che se avessi scoperto il significato di quell’occhio avrei compreso qualcosa in più anche sul furto.
Vicino al corpo notai un pezzo di tacco rosso, che certamente apparteneva a Miss Champignon: ricordai infatti che, entrando nella stanza dell’interrogatorio, camminava molto goffamente e pensai che avesse cercato di nasconderne la perdita. Lasciai la scena del crimine e mi ritirai per raccogliere le idee.
Avevo intuito il significato di quell’occhio: stava a simboleggiare probabilmente la giostra del London Eye, dove lavorava Mister Howard, che era chiusa al pubblico da moltissimi giorni. Mi recai lì. Chiesi di poter oltrepassare le grate del cantiere per poter indagare sul mio caso: mi diedero il permesso.
Proprio nella prima cabina della giostra stava nascosto un piccolo vaso danneggiato. L’unico che poteva accedervi era Mister Howard, ma ciò non negava che ci potesse essere un complice e che la vittima fosse stata uccisa da qualcun altro.
Convocai i sospettati al museo per la seconda volta. Mister Abernathy cercava di rassicurarli. Il medico legale aveva rivelato che la vittima era stata colpita alla testa con un’arma da fuoco. Sino a quel momento l’arma non si era trovata. In quel momento mi tornò in mente il tacco ritrovato: ero intenzionato a informarne Miss Champignon, volevo vederne la reazione. Appena avvisata della scoperta, lei sbiancò completamente. Mister Smith prese subito le sue difese dicendo che il tacco lo aveva perso mentre raggiungeva la scena del crimine e che lui l’aveva vista. Cosa non si fa per amore! Avevo l’impressione che Miss Champignon lo stesse manipolando con la sua bellezza… Oppure era lui che mentiva su dove si trovasse al momento dell’omicidio?
Il giorno del funerale del povero custode, misero una sua foto all’uscita. Era un giorno molto caldo, con uno strano sole accecante su Londra; misi i miei occhiali da sole, con le lenti verde pallido e… attraverso quelle lenti intuii tutto quanto. Avevo soltanto bisogno di una conferma.
Mi diressi da Abernathy e lo trovai con le mani tra i capelli, che si disperava osservando una foto e bisbigliava: “Siamo sempre stati così poveri”. Intravidi la foto sbiadita e strappata, che ritraeva due persone: un giovane e una donna. Ebbi la sensazione di averla già vista. Accortosi della mia presenza, Abernathy mise via la foto ma non riuscì a nascondere la sua aria malinconica.
Gli chiesi: “Era sua madre?” Mi rispose con voce velata di tristezza: “Sì, è morta qualche giorno fa”. “Mi dispiace” dissi “ma deve radunare i nostri tre sospettati: ho delle novità da annunciare”. “Lo farò immediatamente, signore”, mi rispose.
Tutti erano radunati nella sala egizia, dove era avvenuto l’omicidio. Iniziai a parlare: “Grazie a tutti per essere venuti così velocemente, ci sono delle importanti novità. Tutti voi avete un movente e nessuno ha un alibi: questo mi ha reso più difficile capire chi fosse il colpevole.
Miss Champignon affermava di aver sentito lo sparo e le urla e di essersi precipitata verso il luogo da cui provenivano quei rumori per vedere cosa fosse successo; nel frattempo ha perso un tacco. Niente di tutto ciò esclude che sia stata lei a ucciderlo a seguito del litigio di cui lei stessa ci ha parlato; anche perché l’unico che ha confermato l’alibi di Miss Champignon è stato Mister Smith, ma si fa di tutto per amore.”
Mister Smith era arrossito e Miss Champignon era pietrificata.
Abernathy aggiunse: “Miss Champignon aveva un movente: la rabbia che provava nei confronti del custode per gli insulti a lei rivolti”.
Io continuai col mio discorso: “Infatti Mister Smith ha affermato di averla vista correre e di aver sentito il rumore del tacco cadere a terra: ciò è impossibile perché vi trovavate in luoghi troppo distanti, al momento del delitto.” Aspettai un po’ per lasciarli sulle spine, poi ricominciai a parlare.
“Ma potrebbe essere stato Mister Smith a uccidere il custode, visto che è stato l’ultimo ad averlo visto e un movente, insensato a parer mio, ce l’aveva: il fatto che il custode gli facesse perdere tempo nel suo lavoro. Uccidendolo, i beni del museo sarebbero passati alla banca con cui la vittima era indebitata, e la banca avrebbe potuto venderli ad un altro museo, ricavandone un profitto immediato”.
Mister Smith pareva parecchio arrabbiato ma si trattenne dall’urlarmi contro.
“Per ultimo c’è Mister Howard, l’unico a poter accedere al London Eye, in quanto sta lavorando alle luci della ruota panoramica”.
“E questo cosa c’entra?!” sbraitò Mister Howard.
“C’entra eccome, perché in una cabina della ruota ho trovato il vaso che era stato rubato; è stata la vittima, prima di essere uccisa, a darmi un indizio, rompendo un vaso egizio col disegno dell’ occhio di un faraone”. Estrassi il vaso rubato da una valigetta e lo mostrai. Tutti sembravano stupiti.
“ Allora chi è il colpevole? Siete tutti nella stessa condizione di sospettati senza alibi, ma se vi dicessi che non è stato nessuno di voi a uccidere il custode, mi credereste?” domandai a quel punto.
“Ma che sta dicendo?!” dissero in coro i tre sospettati.
“Credetemi: il colpevole è tra di noi ma non è uno di voi”.
“Questo è pazzo!” bisbigliò sospirando Mister Smith. “Io non sono pazzo, Mister Smith e ci sento benissimo, perciò i commenti le conviene tenerseli per sé!”, dissi con aria di rimprovero.
“Stavo dicendo che il colpevole non è Miss Champignon, non è Mister Smith e non è Mister Howard, ma bensì Mister Abernathy. Vi dirò come sono andati i fatti: Mister Abernathy nasce, come figlio illegittimo, da sua madre e dal custode di questo museo.
Il custode era sposato e guadagnava poco, perciò non poteva gestire due famiglie. Sua madre ha dovuto farsi strada da sola, senza aiuti. Abernathy ha covato un enorme rancore verso il custode, soprattutto quando sua madre è morta di una malattia che non poteva curare, per mancanza di soldi.”
“Ma lei come fa a saperlo?” chiese Abernathy.
“Ho letto un giornale dove si parlava di sua madre e del fatto che fosse scozzese. Quando la vidi per la prima volta, lei aveva un’aria familiare; e al funerale del custode i miei occhiali da sole con le lenti verdi mi hanno ricordato la strana somiglianza tra i suoi occhi verdi e quelli della donna defunta che avevo visto sul giornale. Inoltre ho visto il ritratto del custode in una foto da giovane: vi ho messi a confronto e ho capito che lei era suo figlio.
L’arma del delitto non è stata trovata da nessuna parte perché tutti hanno pensato che lei fosse arrivato soltanto dopo l’omicidio e che non fosse un sospettato, mentre lei era l’unico a portare con sé una pistola in quanto poliziotto. Infine lei era, insieme a Howard, l’unico che poteva entrare nel London Eye (essendo un poliziotto) e la persona che ha visto Mister Smith non era Miss Champignon, bensì lei che stava scappando con il vaso in mano per inscenare un furto e far pensare a un ladro.
Dopodiché ha interrogato i sospettati e ha capito dove nasconderlo per incriminare qualcun altro che non fosse lei. Per non lasciare nulla al caso, ha finto che la vittima mi avesse lasciato il pezzetto di vaso con l’occhio, per farmi cercare indizi presso la ruota panoramica e trarmi in inganno, ma la vittima non avrebbe mai sacrificato uno dei suoi amati vasi, nemmeno per tutelare se stesso.
Comunque, Mister Abernathy, l’ammiro per aver architettato il suo piano nei minimi dettagli. Infatti …fare il poliziotto serviva soltanto a vendicarsi e avere un alibi; molto astuto! Peccato che io sia più furbo e… non sono cascato nel tranello.”