//CORPI MIGRANTI

CORPI MIGRANTI

di | 2019-06-18T14:29:48+02:00 18-6-2019 14:29|Alboscuole|0 Commenti

Dal 5 al 28 aprile 2018 c’è stata allo Spazio Hydro una mostra fotografica, Corpi Migranti, frutto del lavoro del fotografo biellese Max Hirzel. Vorrei parlarvene un po’ perché la mostra ormai è finita, ma potreste provare a riviverla attraverso la mia esperienza.

Il 18 aprile 2015 naufragò un’imbarcazione al largo delle coste libiche, fu una tragedia. A bordo c’erano oltre 700 persone, ma i sopravvissuti non furono che 28. All’ora se ne parlò molto, moltissimi ne rimasero toccati, motivo per cui, forse cavalcando l’onda, il governo vigente promise che non solo avrebbero recuperato lo scafo, ma che avrebbero dato un’identità a tutte le vittime. Inizialmente l’operazione fece molto scalpore, non solo infatti si tratta di una procedura insolita e rara, ma i costi per attuarla sono davvero gravosi. Per questo l’opinione pubblica si divise in due, tra chi considerava giusto dare un volto a così tante vittime e chi sosteneva che spendere così tanto non avrebbe migliorato la situazione. La visibilità mediatica che ottenne fu relativamente “buona”, ma quando non ci fu più niente di “interessante” il caso venne lasciato a sé stesso. Non tutti però si muovono in cerca dello scoop più accattivante e Max Hirzel si occupò di far conoscere la parte di questa storia più cruda, vera, significativa.

Tutto partì quando si chiese cosa accade a un corpo senza identità, senza qualcuno che se ne prenda cura. Le sue foto, che non infrangono mai la dignità delle persone coinvolte, inquadrano tutte le procedure attuate. Iniziando dal trasporto delle salme, dagli strumenti per le autopsie, dalle sezioni dei femori per stabilire un’età approssimativa, ci fa riflettere sulla ricaduta che avrà questo lavoro sui medici più giovani, che si ritrovarono non solo di fronte a un numero spropositato di morti, ma anche alla terribile vicinanza di età con molti di loro. Le foto proseguono in un crescendo di tragicità: dalla costruzione delle bare, ai numeri utilizzati al posto dei nomi, fino alle tombe trascurate. A ogni corpo, finché non viene identificato, viene dato un numero il cui corrispondente in archivio fornisce tutte le informazioni ricavate sia dalla salma che dagli effetti personali. Il lavoro sugli effetti personali è meticolosissimo, ogni cosa può nascondere in sé infinite informazioni ed è la parte della mostra che ho trovato più toccante. Questo perché non solo attraverso gli oggetti di una persona possiamo dire di conoscerla un pochino di più, ma soprattutto perché vedere a cosa era legata o cosa utilizzava nel quotidiano, la rende reale, una persona come noi. Entrando nei dettagli, suscitavano tenerezza i guanti di Kakà, una rosa di plastica, una tavoletta di cioccolato e soprattutto i piccoli sacchettini con la terra di casa.

Ho accennato ai cimiteri trascurati, ma non vi ho parlato delle croci malmesse con la scritta “migrante” al posto della lapide, dei numeri sulle tombe o dei rovi che invadono questi cimiteri. A un primo sguardo, sembra irrispettoso tutto questo. La realtà è che questa situazione non è dovuta alla malvagità degli italiani, il problema è che non si sa come agire davvero in queste situazioni, non si è designata ancora una figura che se ne occupi. Ma come forse nessuno avrebbe immaginato, spesso la popolazione finisce per occuparsi di questi defunti senza nome, a comprare delle vere lapidi. Che sia per la vicinanza con la tomba o con l’età del parente, c’è ancora molta solidarietà.

Ma la foto in assoluto che dà un senso a tutto questo immenso lavoro e che potrebbe far tacere chi parla solo di costi è quella che raffigura l’abbraccio tra Angelo, che lavora in Procura, e Mohamed, che perse il fratello sedicenne nel naufragio. Il compito di Angelo è quello di accostare foto in cerca di una corrispondenza e trovare quindi un’identità ai corpi, un lavoro lunghissimo che si protrae ben oltre l’orario di lavoro. Si tratta di un altro caso raro riuscire a trovare un familiare e ancora più raro che poi questo riesca a venire in Italia, visitare la tomba e prendere gli effetti personali. Per quanto in un contesto triste, la storia di Mohamed si è conclusa meglio di molte altre. Nella maggior parte dei casi infatti, quando si trova l’identità, magari non si riesce a contattare la famiglia. Da parte dei familiari, ovviamente, la situazione è davvero angosciante, sia nel caso in cui non abbiano più notizie (e allora vivere nell’incertezza può essere insostenibile), sia nel caso in cui sappiano ma non possono vedere il cadavere o la tomba (perché in questo caso elaborare il lutto è impossibile). La famiglia di Mamadou, per esempio, seppe da un amico sopravvissuto della morte del padre/marito ma senza nulla di concreto. È come vivere nella storia di qualcun altro: si rimane in quello stato di irrealtà che rende frastornati e ci si illude che sia tutto un malinteso, che alla porta ancora si ripresenti la persona mancata.

                                                                                                                                                       Eleonora Colongo